Nell’immaginario collettivo la frattura è percepita come un evento improvviso, legato per lo più a una dinamica traumatica che necessita di un trattamento immediato.
Questa percezione rispecchia solo in parte l’eterogeneità dello scenario clinico, in cui una frattura potrebbe essere la conseguenza di una condizione di perdita della massa e della robustezza ossea così avanzata da verificarsi, nei casi più gravi, in maniera spontanea.
Proprio in tale contesto si declina il concetto di fragilità: una condizione subdola, ad elevato rischio, con forte probabilità di essere sottovalutata, che richiede invece la massima attenzione non soltanto per le sue ripercussioni sullo stato di salute ma anche per i suoi risvolti sociali, economici e assistenziali.
Il comun denominatore, che costituisce la predisposizione alle fratture da fragilità, è l’osteoporosi: una malattia multifattoriale caratterizzata da riduzione della massa ossea e da alterazioni dell’architettura scheletrica, che viene distinta in primitiva, ossia non attribuibile a una causa specifica, come per esempio quella post-meno- pausale e senile, osteoporosi secondaria, legata ad altre patologie o a farmaci che promuovono demineralizzazione ossea (per esempio i cortico- steroidi, che notoriamente favoriscono il riassorbimento osseo).
Nella fascia d’età superiore ai 50 anni, l’osteoporosi interessa 4 milioni di italiani al di sopra dei 50 anni d’età, di cui l’80 per cento donne, e il rischio di fratture da fragilità in Italia è stimato nel 34 per cento nel sesso femminile e nel 16 per cento in quello maschile. Nel 2017 le fratture da fragilità stimate sono state 560mila e si prevede un incremento del 26% della loro incidenza nel prossimo decennio.

A rispondere ad alcune domande Francesco Falez, Direttore dell’Unità operativa complessa di Ortopedia e Traumatologia dell’ospedale Santo Spirito di Roma e Presidente della Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia.

Le fratture da fragilità fanno sempre rima con l’osteoporosi?
Sicuramente c’è un legame che possiamo definire assoluto tra le fratture da fragilità, che sono espressione diretta della riduzione della capacità meccanica dell’osso conseguente all’osteoporosi, e l’osteoporosi stessa.
Ciò che fino ad oggi abbiamo di fatto analizzato come alterazione del metabolismo, del turnover metabolico dell’osso, oggi si estrinseca nelle fratture da fragilità e quindi l’attenzione si è di fatto spostata da quella che era una condizione patologica e sistemica verso una condizione che direi essere conseguenza diretta della osteoporosi.

Quali e quante sono le cause che determinano la fragilità ossea e, quindi, le fratture da fragilità?
Sicuramente tra le cause delle fratture possiamo annoverare tutte quelle condizioni che alterano il normale turnover osseo. Quindi, se siamo di fronte a un’osteoporosi endocrina, tra queste cause possiamo registrare tutte le malattie che hanno la possibilità di alterare questo metabolismo: si va dalle malattie oncologiche alle terapie con anabolizzanti e, dunque, con corticosteroidi.

Sono cause solo patologiche o sono indotte anche da altre condizioni?
L’osteoporosi di fatto è una patologia, ma è una patologia quasi fisiologica perché avviene a causa di processi di invecchiamento. In realtà, è un po’ un controsenso dire che si tratta di una patologia, perché lo è in quanto determina alcune situazioni patologiche. Il fatto è che non si può cercare di bloccare l’avanzare degli anni, anche se questa è la vera situazione che deter- mina il reale problema della frattura da fragilità. Oggi però ci si sta finalmente chiedendo: come riusciamo a ridurre la percentuale delle fratture di fragilità nell’osteoporosi? La risposta è che lo si può fare agendo in maniera farmacologica su qualcosa che non si può evitare.

Nel mondo clinico-scientifico che percezione c’è del rischio di fratture da fragilità ossea? È un tema oggetto di confronto e riflessione o è ancora un tema ai margini dell’interesse clinico?
L’attenzione su questi argomenti è elevatissima e va in maniera trasversale dai reumatologi agli endocrinologi, ai medici di base, agli ortopedici. Finalmente ci si è accorti che quello che poteva essere considerato come un grande imbuto finiva in un collo di bottiglia, ovvero nella frattura vera e propria. Poi che si tratti di frattura del femore, dell’omero, delle vertebre o di altro ancora, sempre dall’ortopedico il paziente finisce. Oggi la figura dell’ortopedico sta assumendo un ruolo diverso nel mondo clinico ed assistenziale. Prima era uno degli attori, oggi è l’attore principale.

Se fossero disponibili analisi e nuovi studi prospettici di economia sanitaria, che tengano conto delle dinamiche socio-demografiche in atto e che siano capaci di dare una dimensione vera ai costi socio-sanitari che a queste si accompagnano, si potrebbe otte- nere un’attenzione maggiore sul piano delle scelte di politica sanitaria?
Ci sono importanti studi, sia economici che demografici, che ci parlano d’innalzamento dell’età media dei pazienti e, insieme, dell’allungamento della vita. Inevitabilmente queste situazioni fanno aumentare percentualmente i numeri della popolazione affetta da osteoporosi. La conseguenza diretta è che queste persone devono essere curate.
Questi studi aiutano a tenere alta l’attenzione che già c’è a livello clinico ma la situazione, di contro, risulta ancora deficitaria a livello istituzionale dove l’osteoporosi ancora non è vista come l’infarto, come i tumori o come altri mali. La percentuale delle morti conseguenti alle fratture da fragilità è però assolutamente sovrapponibile alle morti da infarto. Di prevenzione di infarto si parla spesso e ovunque, a livello istituzionale, di prevenzione delle fratture da fragilità no. Parliamo di percentuali che si aggirano sul 30 per cento a sei mesi dall’evento, sono numeri che dovrebbero fare comunque riflettere.

La comunità clinico-scientifica che posizione ha verso forme di organizzazione evolute quali i modelli Hub&Spoke o le reti di patologia?
Oggi ci stiamo organizzando anche in Italia con centri nati come centri dedicati al trattamento dell’osteoporosi ma che si sono trasformati e stanno sempre più cambiando.
Ovviamente c’è ancora grande necessità di metterli sempre più in rete.

I medici di medicina generale quale contributo in più potrebbero offrire rispetto a oggi, da un lato, come sensori precoci di un problema e, dall’altro, per una gestione dei pazienti più avveduta ed efficace a diagnosi avvenuta?
Il ruolo dei medici di medicina generale è fondamentale non solo come prima diagnosi, ma anche per evitare i secondi eventi che sono altrettanto importanti nella cura del paziente affetto da una frattura di fragilità. E poi anche per controllare che il percorso terapeutico sia osservato dai pazienti stessi.

LA PREVENZIONE:
Per la prevenzione della patologia è importante sviluppare programmi di prevenzione primaria che promuovano stili di vita più corretti come l’alimentazione bilanciata, l’esecuzione di una regolare attività fisica, l’astensione dagli alcolici e dal fumo, terapie farmacologiche in grado di inibire il riassorbimento dell’osso o stimolarne la crescita.
La prevenzione secondaria mira invece a una diagnosi precoce della frattura da fragilità e alla tempestiva gestione del paziente per ridurre il rischio di andare incontro ad una successiva frattura: dovrebbe articolarsi in programmi integrati, coordinati all’interno di Unità per la Continuità Assistenziale per le Fratture da Fragilità, che includono corretti stili di vita, esercizio fisico, integrazione di calcio e Vit D e trattamento farmacologico con farmaci che agiscono inibendo il riassorbimento dell’osso o stimolandone la formazione (presto saranno disponibili innovative soluzioni farmacologiche che permetteranno di ottenere contemporanemente il duplice effetto, antiriassorbitivo e anabolico dell’osso e che per questo offriranno al clinico un nuovo e rivoluzionario paradigma per il trattamento di questa patologia), tenendo conto, specie nel paziente anziano, della tipica complessità associata alle comorbilità e alla polifarmacoterapia.

IL MANIFESTO
Dati e considerazioni queste che, su iniziativa della rivista di politica sanitaria Italian Health Policy Brief, hanno indotto 6 società medico-scientifiche e ben 15 associazioni di pazienti a dar vita a FRAME®, un’alleanza finalizzata al coinvolgimento della classe politica e delle istituzioni, affinché adottino scelte di politica sanitaria e adeguate iniziative che consentano, attraverso nuovi modelli gestionali, di prevenire e contrastare efficacemente le fratture da fragilità. Un’alleanza che ha anche prodotto un Manifesto Sociale nel quale sono state raccolte le istanze di tipo sanitario e le proposte.
“Io sono un convinto sostenitore della collaborazione tra le associazioni di pazienti per quelle che sono esigenze che io definisco transpatologiche – precisa Salvo Leone, Presidente di EFCCA (European Federation of Crohn’s & Ulcerative Colitis Association) e portavoce delle associazioni pazienti che hanno aderito all’alleanza FRAME® -. Mi fa piacere pensare che ci sia la possibilità di riunire attorno a un tavolo tutte le organizzazioni che hanno interesse per quanto riguarda la fragilità ossea e quindi sviluppare insieme dei progetti concreti mirati alla soluzione di gravi problemi sanitari”.