UNA PARATA PER DIRE NO ALLE DIPENDENZE

UNA PARATA PER DIRE NO ALLE DIPENDENZE

Tutti insieme per dire no alle dipendenze è lo slogan della parata socialmente utile che si terrà il 12 marzo 2016 a Rimini organizzata da Art’ Up, associazione di Milano che si occupa di formazione artistica su base olistica con corsi, percorsi e progetti socialmente utili che sfruttano l’arte come mezzo terapeutico. Un evento che inizierà in Piazza Cavour alle ore 10 e si concluderà alle 16 al Teatro degli Atti, dove avrà luogo un talk show esperienziale per divertirsi, imparare e scoprirsi.

L’iniziativa fornisce la possibilità di utilizzare l’arte e il gioco come strumenti per combattere e sconfiggere le dipendenze di ogni genere. “Raccontare i fenomeni di dipendenza è un importante mezzo per contrastarne la diffusione – riferisce Michele Casula, presidente di Art’s Up –. L’evento consente di comprendere le abitudini scorrette, le strategie preventive, gli strumenti diretti per comprendere i fenomeni di dipendenza da gioco, sesso o sostanze, e l’utilità dell’arte e del divertimento come mezzi per fronteggiare tali atteggiamenti”.

Nada Starcevic, ricercatrice, è autrice di diversi libri sulla vita di coppia, esperta di educazione sessuale, di disagio e depressione giovanile ha introdotto il concetto di alessitimia. “È questo il vero filo conduttore che unisce tutte le dipendenze – afferma la ricercatrice –. Ho compreso che la mia ricerca basata sull’osservazione e sulla stimolazione dei bisogni endogeni, è la strada per veicolare le dipendenze dall’ inconscio verso l’espressione, o meglio verso l’espressione di Sé, che è la chiave per superare un comportamento dipendente o peggio compulsivo”.

L’evento si svolgerà in compagnia di Funkasin Street Band – M2O Radio con AQPP.

Simone Lucci

UNO STUDIO SUL PARKINSON E UN CAMPIONE OLIMPICO PER PROMUOVERE L’ATTIVITÀ FISICA

UNO STUDIO SUL PARKINSON E UN CAMPIONE OLIMPICO PER PROMUOVERE L’ATTIVITÀ FISICA

La malattia di Parkinson non ha ancora una cura risolutiva ma gli approcci terapeutici più recenti hanno evidenziato l’importanza per il clinico di operare in team e l’utilità dell’attività fisica e della riabilitazione per un più moderno e razionale approccio alla malattia. È questo il pensiero del Alfredo Berardelli, Presidente Accademia LIMPE-DISMOV; Dipartimento Neurologia e Psichiatria, Sapienza Università di Roma.

Ogni anno in Italia circa 6 mila persone vengono colpite dalla malattia di Parkinson e in un caso su quattro hanno meno di 50 anni. Rimanere attivi il più a lungo possibile può prevenire il Parkinson. Le ultime evidenze scientifiche dimostrano, infatti, che chi pratica regolarmente un’attività fisica ha un rischio inferiore del 43% di sviluppare la malattia di Parkinson, mentre i parkinsoniani che continuano a praticare attività fisica e sport non solo mantengono nel tempo una migliore autonomia ma presentano anche una evoluzione più lenta e meno invalidante rispetto a quelli che conducono una vita più sedentaria. “Una prospettiva multidisciplinare nella gestione delle persone con malattia di Parkinson e le terapie farmacologiche più avanzate aiutano a gestire la malattia per lungo tempo, mentre l’attività sportiva, le terapie fisiche e riabilitative e piccoli cambiamenti nello stile di vita possono facilitare la gestione del Parkinson, la mobilità dei pazienti e quindi la loro autonomia – dichiara Berardelli. Nelle persone con malattia di Parkinson, infatti, l’esercizio fisico può aiutare a migliorare l’equilibrio e ridurre del 70% le cadute, che sono la loro più comune causa di accesso al pronto soccorso”.

“Uno studio ha valutato, un ampio campione di pazienti italiani affetti da malattia di Parkinson, la frequenza delle cadute e i possibili parametri clinici associati o predittivi del rischio di caduta – dichiara Giovanni Abbruzzese, Presidente della Fondazione LIMPE per il Parkinson Onlus – La ricerca si è svolta in 19 centri italiani che hanno arruolato 544 pazienti affetti da malattia di Parkinson e 301 soggetti di controllo. I risultati preliminari hanno evidenziato che il 42% dei pazienti italiani con malattia di Parkinson cade almeno una volta l’anno (media 23 cadute) rispetto al 17% dei soggetti di controllo. Numerosi fattori (età, durata e gravità di malattia, stato cognitivo, presenza di disturbi del cammino, presenza di ansia e depressione) sono associati al rischio di cadere, ma soprattutto la durata della malattia e alcuni specifici disturbi del cammino risultano essere predittivi. L’identificazione di fattori predittivi del rischio di caduta appare fondamentale al fine di programmare interventi preventivi o trattamenti riabilitativi specifici”.

Testimonial d’eccezione della Giornata della Malattia di Parkinson 2015 è il campione olimpico Jury Chechi, che ha voluto trasferire in questa iniziativa la sua esperienza di campione nello sport e nella vita.

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“Sull’importanza dell’attività fisica stiamo lavorando con entusiasmo già da alcuni anni con AbbVie per sviluppare progetti che aiutano le persone con Parkinson a partecipare attivamente e consapevolmente alla cura della propria salute – dichiara Jury Chechi -. Esperienze che mi hanno consentito di verificarne i benefici e spinto a proseguire con convinzione nell’impegno in favore delle persone con Parkinson. Si può essere campioni anche nelle vite più complicate e sono sicuro che in ognuno di noi ci siano quelle risorse incredibili che possono aiutare a superare i momenti difficili con forza e determinazione”.

LO SCOMPENSO CARDIACO

LO SCOMPENSO CARDIACO

Oltre 600 mila persone in Italia soffrono di scompenso cardiaco ed è la prima causa di ospedalizzazione per gli over 65, con un’incidenza in costante aumento.

«Lo scompenso cardiaco è una malattia molto seria e sempre più diffusa soprattutto tra i pazienti sopra i 65 anni di età, ma è tuttora una patologia poco conosciuta”, afferma Salvatore Di Somma, Professore di Medicina Interna alla Sapienza-Università di Roma e Direttore di Medicina d’Urgenza e Pronto Soccorso all’Azienda Ospedaliera Sant’Andrea.

Lo scompenso cardiaco è una patologia cronica sempre più diffusa eppure ancora poco conosciuta: ci può spiegare cos’è? Da quali sintomi può essere facilmente riconosciuto e qual è l’importanza di una diagnosi tempestiva?

Lo scompenso cardiaco è l’incapacità del cuore a pompare sangue nella quantità adeguata a soddisfare le richieste dell’organismo. In pratica, un cuore scompensato è un organo che ha perso la sua forza contrattile e, di conseguenza, la capacità di assicurare la giusta quantità di ossigeno agli organi.

I sintomi più frequenti dello scompenso cardiaco sono la mancanza di fiato o dispnea, l’intolleranza crescente allo sforzo anche leggero, palpitazioni, la progressiva ritenzione di liquidi che in poco tempo provoca un aumento del peso corporeo, conseguenza della riduzione dell’urina nelle 24 ore. Nella pratica quotidiana, soprattutto nelle fasi iniziali della malattia è difficile però riconoscere i sintomi specifici poiché spesso questi sono sfumati, subdoli. Un segnale molto importante è la fatica a salire le scale: se si va in affanno dopo una o due rampe, qualcosa non va. Un altro segno da non sottovalutare è il gonfiore progressivo alle caviglie. In alcuni casi invece la sintomatologia può presentarsi all’improvviso, in maniera acuta e drammatica con fame d’aria improvvisa e senso di morte imminente. La diagnosi tempestiva è fondamentale perché permette di prevenire o rallentare la malattia. Ricordiamo che lo scompenso cardiaco, che in Italia colpisce oltre 600.000 persone, è caratterizzato da un’elevata mortalità, con un’aspettativa di vita a 5 anni dal primo ricovero del 50%, e da un elevato tasso di re-ospedalizzazioni. Tale aspettativa di vita ridotta è finanche peggiore di alcune forme di cancro come quella al seno o all’intestino.

Quali sono gli unmet needs più urgenti per lo scompenso cardiaco?

Lo scompenso cardiaco è una patologia in forte crescita a causa dell’incremento dell’aspettativa di vita e della cronicizzazione di molte patologie. Le priorità principali sono ridurre la mortalità e le re-ospedalizzazioni: per ottenere questi risultati occorre investire in ricerca, per introdurre soluzioni terapeutiche innovative ed efficaci; in assistenza, perché spesso questi pazienti e le loro famiglie sono soli, ed è quindi fondamentale attuare campagne d’informazione sugli stili di vita e la prevenzione.

 

Quali sono i principali fattori di rischio riconosciuti per lo scompenso cardiaco?

Al primo posto sicuramente la cardiopatica ischemica. Un cuore che ha subito un infarto è un cuore che è stato danneggiato e, pertanto, è scompensato. Poi, l’ipertensione arteriosa, il diabete, il fumo, l’eccesso di assunzione di alcol, il sovrappeso e l’obesità, la sedentarietà: tutti fattori di rischio che possono causare un’insufficienza della pompa cardiaca. Anche malattie delle valvole e del muscolo cardiaco e aritmie possono portare a un deficit di pompa. Particolare attenzione deve essere posta alle forme influenzali in quanto l’infezione virale può attaccare e compromettere il muscolo cardiaco determinando scompenso. Altre volte lo scompenso di cuore è conseguenza di malformazioni cardiache, cardiopatie congenite o malattie primitive del muscolo cardiaco soprattutto in bambini o giovani adulti.

Quali sono i principali ostacoli al riconoscimento tempestivo dei sintomi?

I sintomi base dello scompenso cardiaco sono: affanno, ridotta tolleranza allo sforzo anche minimo, astenia ingravescente e gonfiore delle caviglie (edema). Si tratta tuttavia di sintomi che possono comparire anche per altre patologie specie dopo i 65-70 anni e questo comporta che a volte vengano confusi con qualcos’altro. Di sicuro il paziente sottovaluta i sintomi e spesso gli stessi fattori di rischio: ad esempio molti diabetici e ipertesi non sanno di esserlo e quelli diagnosticati non sanno che queste patologie possono predisporre ad uno scompenso cardiaco. Fare attenzione ai piccoli segni e rivolgersi al medico appena sono stati individuati è l’unica arma per bloccare la progressione della malattia, ma per mettere in pratica tutto questo è necessario essere informati.

Quali sono gli stili di vita corretti per controllare i fattori di rischio e prevenire l’insorgenza dello scompenso cardiaco?

Lo stile di vita corretto si apprende sin dall’infanzia. La prevenzione sia primaria che secondaria comincia dall’alimentazione. Molti studi anche recenti dimostrano che la dieta mediterranea a base di olio extravergine di oliva, pesce azzurro, verdure e, perché, no un buon bicchiere di vino rosso migliora l’aspettativa di vita nei pazienti con scompenso cardiaco. Oltre alla qualità degli alimenti occorre controllare le quantità. Un altro tassello importante è l’attività fisica. Uno studio svedese recente evidenzia che 20 minuti al giorno di passeggiata o di bicicletta in pianura è consigliato agli scompensati cardiaci (I-II-III grado) e li aiuta a vivere meglio e più a lungo. È importante mantenere attiva la mente. Le relazioni sociali e gli interessi sono fondamentali per aiutare il cuore a stare bene. Infine è fondamentale seguire attentamente le terapie farmacologiche prescritte perché la mancata aderenza alla terapia può avere gravi conseguenze sulla patologia e sulle condizoni generali di salute.

TRAPIANTI E UNA CAMPAGNA PER TORNARE A VIVERE

TRAPIANTI E UNA CAMPAGNA PER TORNARE A VIVERE

Aderisco Perché” è la prima campagna di sensibilizzazione sull’aderenza alle terapie rivolta ai pazienti trapiantati e alle loro famiglie. E’ promossa da AIDO, ANED, EPAC Onlus, SIN e SITO. La Campagna “Aderisco Perché” vuole essere di stimolo e motivazione ai pazienti affinché vivano con fiducia il futuro e la “nuova vita” che il trapianto d’organo ha permesso loro di iniziare, prendendo coscienza dell’importanza della corretta aderenza alla terapia dopo il trapianto.

Si propone di valorizzare l’esperienza di ogni singolo paziente trapiantato e lo fa attraverso il libro “Aderisco Perché – Storie vissute per chi ha una storia ancora tutta da vivere”, nel quale cinque protagonisti, Marianna, Francesca, Marco, Giuseppe ed Eugenio, raccontano le loro storie di vita dopo il trapianto. Il libro è pensato per aiutare i pazienti trapiantati ad aderire al percorso di cura e tornare a vivere da protagonisti la propria vita. Il libro verrà distribuito dalle Associazioni promotrici della campagna, AIDO, ANED e EpaC Onlus, oltre che dalle Società Scientifiche, direttamente ai Centri di Trapianto e ai Reparti di Nefrologia.

L’aderenza alle terapie è estremamente importante – afferma Franco Citterio, Presidente SITO, Società Italiana Trapianti d’Organo – questo perché i pazienti dopo il trapianto d’organo devono assumere i farmaci immunosoppressivi per evitare la reazione di rigetto e lo scopo di queste terapie è proprio quello di tenere depresso il sistema immunitario. A volte il migliore dei trattamenti perde efficacia a causa della mancata aderenza, che determina problemi a livello clinico, ma anche economico poiché genera spreco di risorse del sistema sanitario nazionale”.

In Italia si registrano: un aumento del numero di donatori d’organo, superiori del 25% rispetto alla media europea, un incremento del numero di organi trapiantati, pari a 3.135 contro i 3.068 dell’anno precedente e la diminuzione significativa del tempo di attesa per un trapianto. Ma rimane comunque di fondamentale importanza far comprendere ai pazienti e alle loro famiglie il valore della terapia post trapianto e della corretta e regolare assunzione per ottenere il successo clinico.

“La perdita dell’organo trapiantato, dovuta alla non aderenza alla terapia immunosoppressiva, è un dato che la letteratura più recente ha evidenziato ed esiste il rischio concreto che i pazienti manipolino le terapie fino ad arrivare a sospenderle – osserva Valentina Paris, Presidente ANED, Associazione Nazionale Emodializzati Dialisi e Trapianto Onlus – gli ostacoli sono due: da una parte la cronicità e la ripetitività della terapia che deve essere assunta per tutta la vita comporta una stanchezza quasi fisiologica, dall’altra il fatto che se succede una tantum di dimenticare la pasticca sembra in apparenza che non succeda niente all’organo o quanto meno dai controlli del sangue le conseguenze non sono immediatamente rilevate. Tutto questo induce il paziente a pensare che ‘forse i farmaci non servono più’. Da qui la necessità di coinvolgere emotivamente i pazienti anche attraverso iniziative come questa campagna”.

Il trapianto d’organo è un intervento chirurgico, completamente gratuito per il paziente, che consiste nella sostituzione di un organo malato, con uno sano proveniente da un altro individuo che viene chiamato donatore.

Per la maggior parte degli organi il prelievo avviene da donatore non-vivente, nel caso invece di trapianto di un rene o di una parte del fegato il donatore può essere vivente (si può infatti continuare a vivere con un rene solo e con solo una parte del fegato perché in grado di rigenerarsi da solo).

Vengono normalmente trapiantati i reni, il cuore, il fegato, i polmoni, il pancreas e l’intestino.

Il trapianto di cuore, fegato e polmone costituiscono degli interventi salvavita mentre il trapianto di rene rappresenta una valida alternativa terapeutica per malati che altrimenti dovrebbero sottoporsi a dialisi, una cura efficace ma per la quale ogni paziente deve sottoporsi a diverse sedute settimanali di 3-4 ore ciascuna.

Il trapianto risulta essere ad oggi l’unica opportunità di vivere o di riprendere a vivere normalmente.

In Italia attualmente qual è la situazione in merito alla raccolta delle dichiarazioni di volontà favorevoli alla donazione d’organo? Attualmente ai cittadini viene data la possibilità ma non l’obbligo di esprimere la propria volontà sulla donazione dei propri organi e tessuti a scopo trapianto post morte – risponde Vincenzo Passarelli, Presidente Nazionale AIDO, Associazione Italiana per la Donazione di Organi Tessuti e Cellule –. Quindi il sistema scelto in via transitoria non è il silenzio-assenso informato, ma il consenso o il dissenso esplicito (art. 23 legge 91/99). Oggi i cittadini possono manifestare la volontà di donare o non donare presso gli sportelli delle ASL, presso l’ufficio anagrafe dei Comuni al rilascio o al rinnovo della carta di identità, oppure tramite iscrizione all’AIDO o, infine, con una dichiarazione in carta libera portata sempre con sé. Le prime tre formule di dichiarazione di volontà vengono registrate nel sistema informativo trapianti (SIT) e sono consultabili dalle rianimazioni e dai Centri regionali trapianti. In questo momento alle ASL sono registrati 152.000 cittadini, il 90% ha deciso per il “sì”; presso i Comuni sono 107mila i cittadini registrati, il 93% dei quali ha scelto il “sì”; all’AIDO sono registrati un milione e 400 mila cittadini, che al 100% hanno scelto di donare. Noi riponiamo molte speranze nell’iniziativa dei Comuni, circa 8 mila sul territorio nazionale. Per ora sono 200 quelli aderenti, ma se il numero dovesse aumentare, come auspichiamo, questo database potrebbe diventare molto corposo.

SI E NO DELL’ACNE E LE NUOVE LINEE GUIDA

SI E NO DELL’ACNE E LE NUOVE LINEE GUIDA

L’acne è una delle più comuni malattie dermatologiche che affligge sia adulti che adolescenti e, in alcuni casi, anche i bambini. Si tratta di un disordine che interessa le ghiandole pilosebacee. Colpisce principalmente il volto e la parte alta del tronco e si manifesta con lesioni non infiammatorie, come i comedoni chiusi e aperti, anche denominati punti bianchi e punti neri, e lesioni infiammatorie come papule e pustole. Nei casi più gravi, possono comparire anche cisti e noduli.

Sono circa 4 milioni gli adolescenti italiani colpiti dall’acne, ma pochi la affrontano correttamente. Disinformazione e cure fai da te portano spesso i giovani ad andare dal dermatologo come ultima spiaggia. Tra coloro che decidono di trattare la malattia solo il 20% si reca da un dermatologo e un altro 10% consulta il medico di medicina generale o il pediatra, mentre quasi il 70% dei pazienti si affida invece al fai da te, al passaparola, sottovalutando il problema e aggravando così il proprio quadro clinico.

Da una recente ricerca pubblicata su BioPsychoSocial Med risulterebbe che, a prescindere dall’età in cui si presenta, l’acne ha importanti risvolti psicologici tra cui timidezza (71%), difficoltà nel farsi degli amici (24%) problemi a scuola (21%) e persino difficoltà nel trovare un impiego (7%)”, afferma Corinna Rigoni, dermatologa Presidente dell’Associazione Donne Dermatologhe Italia.

Il dato più preoccupante emerso dalla ricerca pubblicata su BioPsychoSocial Med è che oltre il 68% degli intervistati non si è mai recato dal medico per un consulto – spiega Antonino Di Pietro, direttore scientifico dell’Istituto Dermoclinico Vita Cutis di Milano -. Il ruolo del dermatologo è fondamentale per una corretta diagnosi e l’impostazione della terapia più adatta e nel supporto al paziente. Per il batterio responsabile dell’insorgenza di alcuni tipi di acne, la resistenza ai due antibiotici maggiormente impiegati per la cura di questa malattia, quali eritromicina e clindamicina, resistenza crociata, raggiunge il 50% dei pazienti in Italia.

Le linee guida dell’American Academy of Dermatology raccomandano, per molte forme di acne, l’associazione di retinoide topico (come l’adapalene) e benzoile berossido (BPO) come terapia di attacco e di mantenimento per il trattamento dell’acne. L’associazione ha dimostrato di avere alti profili di sicurezza ed efficacia nella riduzione delle lesioni in uno studio pubblicato sul Journal of Drugs in Dermatology condotto su 452 pazienti, per 12 mesi applicando il prodotto sulla cute una volta al giorno.

L’associazione di retinoide (come l’adapalene) e benzoile perossido (BPO), rappresenta una valida terapia per le persone affette da acne, poiché agisce direttamente sia sulle lesioni infiammatorie e sia su quelle non infiammatorie, e aiuta a prevenire la formazione delle lesioni, con il vantaggio di non generare fenomeni di antibiotico resistenza.

SÌ e NO dell’acne

Esposizione solare
NO all’eccessiva esposizione solare – numerosi studi fanno ritenere che la luce solare sia in grado di aggravare l’acne. Inoltre il potenziale acnegenico di sostanze applicate sulla cute può essere aumentato dall’azione degli ultravioletti. Tuttavia alcune radiazioni solari hanno una attività antinfiammatoria e sono quindi benefiche per l’acne.

Lo stress
NO allo stress. I periodi di forte stress fanno si che nell’organismo venga attivata la produzione di alcuni ormoni, che risvegliano alcuni recettori presenti sulla superficie delle ghiandole sebacee, che stimolate producono più sebo. Ciò aumenta le possibilità di proliferazione batterica e infiammazione del follicolo.

Smog
NO allo smog. L’inquinamento fa male anche alla pelle, in particolare due elementi: l’ossido di zolfo e il monossido di carbonio riducono l’apporto di ossigeno e soffocano l’epidermide.

Fumo di sigaretta
NO al fumo di sigaretta. L’acne non infiammatoria è spesso legata all’abuso del fumo di sigaretta. IL fumo infatti impedisce una corretta eliminazione delle sostanze di scarto a livello cutaneo che vanno ad ostruire i pori.

Cibo
NO all’eccesso di zuccheri e ai cibi ad alto carico glicemico (es latte scremato), mentre grassi, cioccolato e proteine sarebbero scagionati.

Fai da te
NO al fai da te. Evitare di incidere o spremere i brufoli. L’acne non curata provoca un aumento dell’infiammazione e, nel tempo, causare cicatrici.

Pulizia della pelle
alla pulizia accurata della pelle. Per prevenire l’acne e velocizzarne la guarigione è essenziale pulire la pelle con detergenti delicati e poco aggressivi, evitare di detergerla eccessivamente per non togliere lo strato lipidico naturale e quindi rendere la cute secca e sensibile.

Cicatrici
all’intervento tempestivo. Se l’acne viene trascurata la cicatrice è la conseguenza più temuta. Le cicatrici possono essere definite polimorfe, per la presenza contemporanea di lesioni diverse, ora piane, ora depresse, ora rilevate. Studi rivelano che dal 2 al 7% delle persone con acne rimangono con cicatrici a vita.

Sport
all’attività sportiva. Mettere in movimento il corpo aiuta a regolarizzare la produzione ormonale.

In età adulta
a uno stile di vita sano. Spesso l’acne in età adulta è la spia di uno stile di vita scorretto e dei troppi impegni quotidiani che fanno si che venga trascurata la salute della pelle.

Trucco
NO all’uso scorretto dei cosmetici. Troppo trucco può peggiorare la situazione. L’ostruzione dei pori da parte di fondotinta o cipria inoltre limita la respirazione cellulare.

Creme idratanti
è possibile applicare creme idratanti sulla pelle affetta da acne, ma è fondamentale il consiglio di un dermatologo. Alcune sostanze potrebbero invece peggiorarlo.

Barba e rasatura
a una rasatura, ma attenzione! I brufoli dopo la rasatura sono molto comuni, inoltre le aree interessate dalla barba sono solitamente quelle maggiormente interessate da acne. Bisognerebbe evitare di radere aree infette o infiammate tuttavia, quando è necessario, è bene adottare alcuni accorgimenti. E’ necessario detergere accuratamente la pelle con prodotti appositi per l’acne al fine di assicurare una maggiore disinfezione.

Lo specialista
al counseling medico eppure il 68% delle persone con acne non ricorre alle cure del dermatologo. Il dermatologo è fondamentale nella scelta della terapia più adatta e nel supporto al paziente.

LA MEDICINA DI GENERE, LA MEDICINA PERSONALIZZATA TRA  UOMO, DONNA E SPORT

LA MEDICINA DI GENERE, LA MEDICINA PERSONALIZZATA TRA UOMO, DONNA E SPORT

I riflettori sono ora puntati sul nuovo approccio di “genere” nella ricerca, nella prevenzione, nelle terapie: una dimensione medica innovativa che studia come le differenze tra uomini e donne influiscono sulla cura delle malattie, per garantire a tutti il miglior trattamento. Una rivoluzione che investe ogni aspetto della Medicina e della ricerca, un nuovo paradigma che combina i dati genetici con le informazioni sulle malattie per ottenere diagnosi sempre migliori e terapie sempre più personalizzate, appropriate ed efficaci: è la Medicina di precisione. La Medicina di genere, uno dei capitoli più promettenti della Medicina personalizzata e di precisione, studia l’impatto specifico del “genere”, maschile e femminile, sullo sviluppo e l’evoluzione delle malattie, con l’obiettivo di assicurare a tutti, uomini e donne, il miglior trattamento possibile sulla base delle caratteristiche personali. “Il futuro della medicina si va articolando sempre di più attorno all’idea di precisione, con la promessa, che in qualche brillante caso è già realtà, di terapie sempre più mirate che rispondano non più tanto alla definizione generale di una malattia, quanto al suo concreto e singolare dispiegarsi nell’individuo – afferma Umberto Veronesi –. E questa idea di una sempre maggiore precisione e della personalizzazione della cura non può non investire un aspetto fondamentale dell’identità delle persone come quello legato al genere: capire pienamente quali siano le differenze di genere che influenzano maggiormente le malattie e le terapie è una delle grandi sfide della scienza del futuro”.

cacciatori_3Le differenze di genere influenzano molti aspetti della vita reale: un esempio è la preparazione fisica alle attività sportive, come testimoniato da Maurizia Cacciatori, già capitano della Nazionale di Pallavolo, modello vincente dell’approccio di genere nello sport.

Maurizia Cacciatori è il simbolo italiano della pallavolo nel mondo. É una delle giocatrici più vincenti di sempre a livello di club, con i suoi 17 trofei vinti in carriera.

É nata a Carrara il 6 aprile 1973, di ruolo alzatrice, alta 178 cm, schiacciava a 298 cm e murava a 274 cm e vanta 228 presenze in Nazionale. Oggi è un’ex pallavolista, opinionista televisiva per Sky Sport per la pallavolo femminile ed è stata chiamata a portare la sua esperienza in merito alla medicina sportiva e al concetto di personalizzazione.

Come interviene il concetto di “personalizzazione” nelle attività di prevenzione che un atleta segue per mantenersi in buona salute e nella preparazione alle performance sportive?

Sulla base della mia esperienza, la medicina sportiva è uno degli ambiti in cui il concetto di personalizzazione è pienamente sviluppato. Infatti in ogni fase delle attività dell’atleta c’è un’attenzione grandissima per tutti gli aspetti specifici e personali legati alla sua salute. Anche solo parlando del semplice certificato di idoneità sportiva per la pratica agonistica, i riscontri ai quali deve sottoporsi l’atleta sono molto approfonditi: esami delle urine, del sangue, della vista, elettrocardiogramma, spirometria. E ogni atleta deve avere obbligatoriamente ottenuto questa certificazione prima di poter iniziare la pratica sportiva. È molto importante sottolineare che questo livello di attenzione per lo stato di salute dello sportivo in passato non c’era e che, al tempo stesso, è cambiata anche la mentalità dell’atleta in questo senso. Un atleta professionista oggi è consapevole che per essere più longevo, per avere una carriera più continua, più sicura e più tranquilla ha necessariamente bisogno del supporto di un medico che lo segua in modo personalizzato.

Ovviamente il tema della personalizzazione nella pratica sportiva assume un’ulteriore importanza quando si considerano le differenze di genere tra atleti uomini e donne. Dal punto di vista dell’alimentazione non ci sono differenze sostanziali, neanche ad alti livelli agonistici: alle Olimpiadi di Sidney, alle quali ho preso parte, nel Villaggio Olimpico, il menu delle squadre di pallavolo maschile e femminile era lo stesso: pasta al pomodoro, olio extravergine, bresaola, pollo alla griglia, etc.

Ma l’approccio personalizzato coinvolge in modo importante la preparazione fisica all’attività sportiva agonistica: è un dato di fatto che una donna non ha la stessa forza, la stessa dinamica, la stessa resistenza fisica di un uomo. Ogni atleta, o ogni team, ha uno staff medico che lo segue per la preparazione atletica che è completamente differente se si tratta di uno sportivo o di una sportiva.

In questo scenario un fattore che può rivelarsi determinante è quello ormonale: in prossimità del ciclo mestruale infatti le prestazioni sportive delle atlete raggiungono standard più elevati. Questo fattore riveste un’importanza tale da venir monitorato anche dagli staff medici dei team sportivi femminili, come è avvenuto alla nostra squadra in occasione di una Coppa del Mondo dove il medico della squadra aveva preparato dei grafici per studiare quanto il periodo in cui avremmo avuto il ciclo si sarebbe avvicinato alle date delle nostre prestazioni.

L’aspetto più importante è che il confronto con questo tipo di approccio abitua l’atleta, in particolare le donne, a conoscere e riconoscere le specificità di genere del proprio organismo.

Tra uomini e donne si può riscontrare molto spesso anche un differente approccio alla malattia, un modo diverso di viverla e di affrontarla, dalla diagnosi alla terapia. Cosa ne pensa?

Mi sembra che la donna abbia più resistenza sia fisica che psicologica nell’affrontare una malattia, a prescindere da quale sia l’entità. Probabilmente da un punto di vista culturale la donna è più portata a farsi “carico” della malattia senza rinunciare agli impegni quotidiani, spesso per un uomo anche solo una leggera forma influenzale viene drammatizzata.

Personalmente nel corso della mia carriera non ho mai avuto grandi infortuni ma, se si parla dei tempi di recupero post-infortunio, notiamo differenze enormi tra gli atleti uomini e donne, perché ovviamente entrano in gioco tantissime dinamiche, anche dal punto di vista semplicemente caratteriale. In definitiva potremmo sintetizzare le differenze di genere tra uomini e donne nello sport citando Julio Velasco, uno dei più grandi allenatori della storia della pallavolo, che avendo allenato entrambe le nazionali italiane, quella maschile e quella femminile, ha sempre detto di essersi confrontato con due pianeti completamente differenti pur trattandosi della stessa disciplina sportiva.

La Medicina di Genere

 

Cos’è la Medicina di Genere?

                                                                                

La Medicina di Genere è una branca recente delle scienze biomediche che ha l’obiettivo di riconoscere e analizzare le differenze derivanti dal genere di appartenenza sotto molteplici aspetti: a livello anatomico e fisiologico, dal punto di vista biologico, funzionale, psicologico, sociale e culturale e nell’ambito della risposta alle cure farmacologiche.

È stato ormai dimostrato da molteplici studi che le differenze di genere, in primis quelle nella fisiologia umana, in caso d’insorgenza di malattia si riflettono significativamente sulla genesi, la prognosi e la compliance degli individui.

La finalità di questa innovativa disciplina è arrivare a garantire a ciascuno, uomo o donna che sia, il miglior trattamento possibile sulla base delle evidenze scientifiche.

 

Cosa significa il concetto di ‘genere’

Per ‘differenze di genere’ s’intendono non soltanto i caratteri sessuali degli individui, ma anche e soprattutto un insieme di specificità che scaturiscono sia dalla differente fisiologia e psicologia degli uomini e delle donne sia dai diversi contesti socio-culturali di riferimento.

In altre parole, si è maschi o femmine non solo in base al sesso, ma anche ad altri aspetti della fisiologia dell’organismo e agli specifici ruoli che ricopriamo nella società.

Il background della disciplina: la sindrome di Yentl

L’idea che uomini e donne presentino delle differenze importanti – come, ad esempio, quelle osservabili nell’apparato cardiocircolatorio, per non considerare la variabilità dell’assetto ormonale – e che queste differenze svolgano un ruolo cruciale in medicina, risale alla metà degli anni Ottanta.

foto YеntlQualche anno dopo la cardiologa Bernardine Healy, allora a capo dell’Istituto Nazionale di Salute Pubblica statunitense, pubblicava un articolo intitolato The Yentl Syndrome, dal nome dell’eroina di un racconto di Isaac B. Singer, costretta a travestirsi da uomo per accedere allo studio del Talmud.

L’articolo commentava i risultati di due studi effettuati su un gruppo di donne affette da coronaropatia, puntando il dito sull’atteggiamento discriminatorio dei medici cardiologi nei confronti delle pazienti che, a differenza dei malati uomini, subivano un numero maggiore di errori diagnostici, ricevevano meno cure ed erano sottoposte a interventi chirurgici non risolutivi. Come Yentl, scriveva Healy, anche le donne sono state costrette a trasformarsi in ‘piccoli uomini’ per rientrare nei canoni della ‘medicina classica’.

Nel 1992, la cardiologa Marianne J. Legato dava avvio alla Partnership for Women’s Health alla Columbia University di New York. La prima sperimentazione riservata alle donne fu avviata più di dieci anni dopo, nel 2002, con l’istituzione nella medesima Università del primo corso di Medicina di Genere, dopo che la disciplina era stata finalmente inserita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nell’Equity Act stilato nel 2000.

In tempi recenti i temi della Medicina di Genere hanno richiamato l’attenzione anche delle Istituzioni europee: nel maggio scorso a Bruxelles, presso la sede del Parlamento Europeo, si è svolto un incontro incentrato sulle strategie per promuovere misure volte a ridurre l’incidenza di patologie cardiovascolari in Europa; nel corso dell’incontro, tra l’altro, è stata messa in evidenza la scarsa presenza di donne (solo il 33%) nei trial clinici che testano farmaci per le patologie cardiovascolari. Da questo incontro è scaturita la proposta di una legge, analoga a quella americana, che renda obbligatoria in Europa un’equa rappresentanza femminile (50%) nei trial per patologie cardiovascolari e ictus, prime causa di mortalità femminile.

I vantaggi della Medicina di Genere

Un approccio di genere alla medicina consente di:

  • ridurre il livello di errore nella pratica medica;
  • promuovere l’appropriatezza terapeutica;
  • migliorare e personalizzare le terapie;
  • generare risparmi per il Servizio Sanitario Nazionale.

Le principali differenze di genere nell’ambito delle patologie

Patologie cardiovascolari

Le malattie cardiovascolari (dall’infarto all’aterosclerosi) hanno sempre spaventato più gli uomini che le donne. Ma si tratta di un errore, giacché il 38% delle donne colpite da infarto muore nel giro di un anno, contro il 25% degli uomini. Anche in caso di ictus i 12 mesi successivi sono più a rischio per le donne: i decessi ne colpiscono il 25%, contro il 22% degli uomini.

 

Infarto

Le donne sembrano meno capaci degli uomini di riconoscere in tempo il principale campanello d’allarme dell’infarto, cioè l’angina pectoris, dal momento che i sintomi si presentano in modo diverso rispetto agli uomini. Nei Manuali di Medicina viene tipicamente descritto come un dolore toracico a livello dello sterno, oppressivo e costrittivo, di breve durata, che può irradiarsi al braccio sinistro. Nelle donne, secondo lo studio Wise (Women Ischemic Syndrome Evaluation) dell’Istituto Nazionale di Salute Pubblica statunitense, i sintomi che appaiono per primi sono un dolore irradiato alle spalle, al dorso, al collo, la mancanza di fiato, nausea persistente, sudori freddi, vomito, spossatezza, ansia e debolezza. Gli operatori non consapevoli di queste differenze non riconoscono questi sintomi o li riconducono a un’influenza o a problemi gastrici. Di conseguenza il ricovero avviene troppo tardi, o magari non viene effettuato in terapia intensiva coronarica, rendendo meno efficaci le terapie. Molte volte, infatti, la donna con infarto è indirizzata al pronto soccorso in area verde e non in area rossa o può essere inviata in gastroenterologia piuttosto che in psichiatria, proprio perché non manifesta dolore. E più la donna è giovane, più i sintomi sono assenti o atipici. C’è una differenza anche nelle arterie colpite: nell’uomo sono coinvolte le grandi arterie, nella donna quelle piccole (il microcircolo) e quindi la coronarografia potrebbe non rilevare anomalie, con la necessità perciò di rivolgersi ad altri mezzi diagnostici. Inoltre, ci sono differenze anche nei fattori di rischio per l’infarto: il diabete è un fattore di rischio quattro volte più grave nella donna, e anche l’ipertensione incide di più. Insomma, le differenze sono tante e si sono scoperte solo negli ultimi anni: infatti tutti i lavori di epidemiologia sulla prevenzione delle malattie cardiovascolari non hanno considerato donne oppure ne hanno analizzato una percentuale talmente bassa (10-15%) che i risultati statistici non sono significativi. Differenze dal punto di vista terapeutico: la cardioaspirina non è un farmaco efficace nella prevenzione primaria dell’infarto nella donna, mentre lo è nella prevenzione dell’ictus.

 

Aterosclerosi

Nel sesso femminile l’aterosclerosi ha uno sviluppo diverso. Negli uomini le placche aterosclerotiche cominciano a formarsi a partire già dai 30 anni, nelle donne invece questo in genere accade dopo la menopausa. Durante l’età fertile, infatti, l’organismo femminile è protetto dagli estrogeni, che agiscono sulla dilatazione dei vasi, rendendoli più ampi ed elastici e consentendo così il passaggio del sangue anche in presenza di placche e facilitandone la riparazione in caso di lesioni. Con la menopausa, però, questa protezione ormonale svanisce e l’organismo si trova improvvisamente esposto a tutti i fattori di rischio.

Diabete

La sindrome metabolica ha una prevalenza del 60% nelle donne sopra i 65 anni di età e le donne diabetiche sono in lieve sorpasso rispetto agli uomini (5,2% vs 4,4%). In generale la donna con diabete ha una peggiore qualità e una minore aspettativa di vita.

Dal punto di vista delle complicanze cardiovascolari, la malattia diabetica può essere considerata più pericolosa: il rischio di morte cardiovascolare è più che doppio per le donne rispetto agli uomini. Una cinquantenne diabetica vive in media 8,2 anni in meno rispetto a una coetanea non diabetica, contro i 7,5 anni degli uomini. Fino ai 64 anni non si osservano differenze significative tra uomini e donne per la comorbosità delle patologie cardiovascolari e diabete, mentre, a partire dai 65 anni, la prevalenza è più alta tra le donne e raggiunge tra le ultrasettantacinquenni il 10,1%; lo svantaggio femminile s’incrementa ulteriormente tra gli ultrasettantacinquenni (+27%). Alcune forme di diabete, poi, colpiscono le donne in fasi ‘delicate’ della loro vita come la gravidanza o la menopausa: il 50% delle donne con diabete gestazionale sviluppa, dopo 5-10 anni, diabete di tipo 2.

Patologie polmonari

Tumore del polmone

Agli inizi del secolo scorso il tumore al polmone era una malattia rara nelle donne. Ha cominciato a diffondersi nel sesso femminile a partire dagli Anni ‘60, anche a causa del diffondersi dell’abitudine al fumo. Il cancro del polmone nella donna è aumentato del 600% da metà del Novecento ad oggi (le donne hanno storicamente iniziato più tardi a fumare e oggi le fumatrici stanno aumentando più dei maschi) e i carcinogeni del tabacco sono più nocivi per le femmine, che hanno inoltre meno capacità di riparare il DNA. Se comparati a quelli degli uomini i polmoni delle donne, anche di non fumatrici, appaiono più vulnerabili rispetto alle patologie tumorali. Anche nel caso del tumore al polmone, così come avviene per quello al seno, gli ormoni (in particolare gli estrogeni) giocano un ruolo importante. Nelle donne ancora fertili la malattia è più aggressiva e, al contrario di quanto avviene nel caso del tumore alla mammella, il numero di gravidanze gioca un fattore negativo: le donne che hanno avuto più figli sembrano sviluppare, infatti, maggiori probabilità di sviluppare la malattia. Si sono osservate anche alcune associazioni col papilloma virus e un rapporto negativo con gli estrogeni (che riducono il cancro del colon ma aumentano quello del polmone). Dall’analisi del database Surveillance, Epidemiology and End Results, che custodisce le storie cliniche di oltre 31.000 pazienti americane con tumore al polmone, risulta che le donne affette da neoplasie polmonari in terapia presentano infine maggiori effetti collaterali.

Asma

La prevalenza di questa malattia ha un doppio andamento: prima della pubertà, gli uomini sono colpiti due volte più delle donne. Dopo lo sviluppo sessuale, questa differenza scompare, anzi tra le donne adulte l’asma è più frequente che negli uomini. Il ‘sorpasso’ è dovuto agli ormoni: gli estrogeni, infatti, regolano il rilascio di diverse molecole proinfiammatorie (citochine) coinvolte nello scatenarsi della reazione asmatica. Anche la menopausa è un periodo a rischio: quando le ovaie cominciano a cessare le loro funzioni, si verifica un aumento spontaneo della produzione di citochine, con un conseguente peggioramento o addirittura una prima comparsa della malattia.

Bronco-Pneumopatia Cronica Ostruttiva (BPCO)

Oggi, la BPCO colpisce più gli uomini che le donne, ma queste ultime muoiono di più a causa di questa patologia. Nei prossimi dieci anni, peraltro, avverrà il sorpasso del sesso femminile anche nel numero di casi. La colpa è del fumo e della sua sempre maggiore diffusione nella popolazione femminile. Le fumatrici hanno una maggiore probabilità di sviluppare la forma grave della malattia: a parità di sigarette, nelle donne la BPCO si manifesta prima, con sintomi peggiori e conseguenze più nefaste. Inoltre, a parità di esposizione al fumo, le donne con BPCO hanno un rischio più elevato di danno polmonare, un maggiore grado di dispnea (cioè di mancanza di fiato) e uno stato di salute peggiore rispetto agli uomini. Nonostante queste evidenze, nelle donne la malattia è sottovalutata: quando si presentano dal medico, le pazienti hanno meno probabilità di ottenere una diagnosi tempestiva (e quindi una cura appropriata), anche perché la spirometria, l’esame che serve a valutare la funzionalità respiratoria, viene prescritta più facilmente a un uomo che a una donna.

Patologie neurodegenerative

Malattia di Parkinson

La Malattia di Parkinson è da 1,4 a 2 volte più frequente negli uomini che nelle donne. Uno studio condotto nel 2003 dal Kaiser Permanente di Oakland, in California, mostra un tasso globale per i maschi del 91% superiore a quello femminile: 19 casi ogni 100.000 uomini, contro 9,9 casi ogni 100.000 donne. Pur essendo meno colpite, le donne lamentano in generale una maggiore disabilità e una qualità di vita peggiore. Una volta comparsa, la malattia ha un decorso simile nei due sessi e non ci sono grandi differenze per quanto riguarda la sua durata (10,1 anni in media per gli uomini, 10,3 anni per le donne). La maggiore diffusione nel sesso maschile è probabilmente dovuta a fattori genetici (è stato evidenziato un legame tra la malattia e una mutazione di alcuni geni presenti sul cromosoma X, di cui gli uomini hanno una copia sola), ormonali (a proteggere le donne sarebbero anche gli estrogeni) e ambientali (gli uomini sono maggiormente esposti all’azione di sostanze tossiche).

IL MINISTRO DELLA SALUTE DEL LESOTHO INCONTRA UN’ECCELLENZA ITALIANA

IL MINISTRO DELLA SALUTE DEL LESOTHO INCONTRA UN’ECCELLENZA ITALIANA

Il Lesotho incontra l’Italia. Il Lesotho è un paese dell’Africa meridionale, con circa due milioni di abitanti a forte maggioranza cattolica e un’alta percentuale di persone infette dal virus dell’HIV.

Domenica 20 settembre 2015 a Roma presso l’Istituto Clinico Cardiologico sono stati ricevuti da una delegazione scientifica Italiana e dalla MedTAG Ltd., il Ministro della Salute del Regno del Lesotho (S.E. Molotsi Monyamane) e la sua delegazione. L’Istituto Clinico Cardiologico è sede del “Training Hospital of the Future” della MedTAG, leader mondiale nello sviluppo di tecnologie di simulazione e nell’erogazione di servizi di formazione medica.

Durante la visita al centro Training Hospital of the Future, la delegazione del Lesotho ha partecipato a una serie di dimostrazioni delle attività di formazione attraverso simulazione in selezionate aree terapeutiche e ha potuto effettuare alcune esercitazioni di procedure mediche sugli umanoidi della MedTAG Ltd.

Obiettivi della visita? Mostrare alla delegazione del Lesotho una panoramica delle attività del centro di simulazione medica Training Hospital of the Future: le attività di ricerca e sviluppo, i sistemi di simulazione MedTAG, la metodologia formativa i relativi vantaggi con particolare attenzione alle malattie infettive. E discutere sull’opportunità di progettazione, realizzazione e gestione di un centro avanzato di simulazione Training Hospital of the Future in Lesotho, con particolare attenzione a programmi educativi e formativi sulle malattie infettive.

Il Ministro della Salute del Regno del Lesotho desidera quindi realizzare un centro di formazione medica attraverso simulazione utilizzando il concept, le tecnologie e le metodologie di formazione rivoluzionarie del progetto Training Hospital of the Future di MedTAG. Il centro sarà focalizzato nella formazione in alcune delle aree tra le più critiche del paese, tenuto presente che il Regno del Lesotho rappresenta il terzo paese con la più alta incidenza di HIV.

Il centro si avvarrà delle consulenza scientifica di importanti opinion leader tra cui i seguenti professori:

Dott. Angelo M.M. Di Giannantonio, Presidente e Amministratore Delegato Istituto Clinico Cardiologico (ICC), Roma

– Dott. Gianluca Oricchio, Direttore Cardiochirurgia, Istituto Clinico Cardiologico (ICC), Roma

– Dott. Giovanni Di Perri, Direttore della Clinica di Malattie Infettive, Professore ordinario, Università degli Studi di Torino

– Dott. Francesco Castelli, Direttore della Scuola di Specializzazione in Malattie Infettive, Professore ordinario e titolare della Cattedra UNESCO 2014-2018 (Training and Empowering Human Resources For Health Development in Resource-limited Countries), Università degli Studi di Brescia.

RIMEDI NATURALI, LIFTING DEL COLLO E DEL DOPPIO MENTO CON I FILI DI SOSPENSIONE

RIMEDI NATURALI, LIFTING DEL COLLO E DEL DOPPIO MENTO CON I FILI DI SOSPENSIONE

Il doppio mento è un inestetismo che può avere diverse cause. Il grasso che si deposita nella zona tra la mandibola e il collo può essere favorito da una generale condizione di sovrappeso, oppure può essere originato da una conformazione particolare del viso (ad esempio un mento “debole”) associato a tessuti poco tonici, che tendono a cedere. L’alimentazione, la mancanza di idratazione e la perdita di definizione e tono fanno sì che i tessuti si rilassino, cambiando l’equilibrio del volto.

Le persone giovani con il doppio mento di solito presentano un viso rotondo, a “luna piena”, che tende ad accumulare adipe o liquidi. Se questa caratteristica è associata a un fisico tendente al sovrappeso, per ridurre il grasso del sottomento basterà mettersi un po’ a dieta, e così anche il viso si asciugherà naturalmente. A volte però una particolare conformazione del volto può predisporre al doppio mento anche qualora il resto del corpo sia in linea perfetta. Ridurre la ritenzione di liquidi, potrebbe aiutare a sgonfiare il viso, sottomento incluso, bisognerebbe per questo bere molta acqua, limitare il sale e le bevande alcoliche, e assumere tisane drenanti ogni giorno.

Massaggi, creme che stimolino la termogenesi e una semplice ginnastica facciale, inoltre, consentono di stimolare la muscolatura del collo e della mandibola e possono aiutare a rassodare i tessuti e bruciare i grassi accumulati.

Se i rimedi naturali non bastano, si può poi ricorrere alla chirurgia estetica.

RIDUZIONE DEL DOPPIOMENTO

“La cosiddetta pappagorgia è un connotato antiestetico molto diffuso, dato dall’accumulo di grasso nell’area mentoniera, che può essere rapidamente eliminato con una microliposuzione dell’area con apposite piccolissime cannule che aspireranno definitivamente il tessuto adiposo – spiega Raoul Novelli, medico chirurgo -. Tuttavia a volte la pelle, abituata ad essere riempita dal grasso, una volta svuotata, resta un po’ cadente sotto il mento, creando delle increspature che invecchiano il viso nel suo insieme, soprattutto se è poco tonica. Il lifting dei tessuti molli del mento con fili di sospensione risolve questa possibile conseguenza della liposuzione con un risultato fresco e piacevole, ma sempre estremamente naturale. È una tecnica mini-invasiva in anestesia locale”.

L’INTERVENTO

La fase iniziale di osservazione e disegno pre-operatorio è molto importante perché è qui che viene stabilito in che punti inserire il filo per la tensione dei tessuti molli del collo (e quindi dove anestetizzare localmente). Si procede con una piccola incisione di pochi millimetri al margine infero-posteriore del lobo di una delle due orecchie, quindi si inserisce l’ago a due punte a cui è agganciato il filo e si fa girare quest’ultimo attorno alla fascia muscolare di Lorè che sarà il punto di ancoraggio della sospensione elastica. Dopodiché ci si posiziona definendo l’angolo cervico-mandibolare, ovvero la rotondità del collo, uscendo dai punti prestabiliti durante la fase pre-operatoria fino a giungere all’altro orecchio, dove ci si aggancia all’altra fascia di Lorè e si torna indietro fino al punto di partenza. Il tutto dura circa 30 minuti.

RISULTATI

Questo intervento permette un risultato estremamente naturale in pochissimo tempo e un tempo di recupero brevissimo. Infatti, praticando solo una piccola incisione per il passaggio del filo, il recupero sarà di una settimana circa, contro il mese intero che prevede un lifting tradizionale, senza fili. I punti di uscita e ingresso del filo di sospensione non saranno più visibili dopo qualche giorno dall’intervento.

FILI-COLLO

MA COS’È UN FILO DI SOSPENSIONE?

È un filo non riassorbibile di silicone ricoperto di poliestere, assolutamente tollerato dall’organismo e utilizzato da anni in chirurgia. Questo filo di sutura, anche se posizionato appena sotto il derma, è del tutto impalpabile e neanche chi ha subito l’operazione riuscirà a sentirlo già pochi giorni dopo il suo inserimento. Il filo è legato a un ago retto a due punte che farà da guida nell’inserimento e nel tiraggio dello stesso, evitando quindi di dover operare uno scollamento ulteriore dei tessuti come avviene invece per il lifting tradizionale. Lo scollamento è minimo e non causa cicatrici visibili. Inoltre si ha una doppia azione liftante: la prima è quella del filo stesso, che agganciandosi alle fasce muscolari e venendo teso agisce come in un lifting tradizionale, la seconda è la fibrosi che si forma attorno al filo diventando un vero e proprio legamento sospensivo naturale grazie all’azione dei fibroblasti. Quando un corpo estraneo viene introdotto nell’organismo, quest’ultimo produce subito nuovo tessuto per ricoprire l’elemento estraneo, quindi con l’inserimento dei fili si induce anche la produzione di nuovo collagene e di elastina, che migliorano notevolmente l’area circostante col loro effetto tensore.

DOVE SI PUO’ USARE IL FILO DI SOSPENSIONE?

Ad oggi i fili di sospensione vengono utilizzati in chirurgia estetica per sollevare i tessuti molli, quelli che anche in un corpo ben allenato e tonico non possono resistere all’azione della forza di gravità. Stiamo parlando ad esempio della struttura dermo-epidermica del lato B vicino alla piega glutea, che anche con palestra e attività fisica intensa non può essere sollevata, dato che il muscolo del gluteo può essere esercitato efficacemente nel polo superiore, ma non in quello inferiore proprio per la maggiore quantità di tessuto molle. Con il lifting con fili di sospensione si otterrà un gluteo nuovamente “alto”, con l’antiestetica piega glutea ridotta al minimo. Altra zona dove i fili hanno soppiantato il lifting tradizionale è quella del viso e ancor più del collo. Qui la pelle inizia a rilassarsi prima rispetto al resto del corpo. I fili si possono posizionare in modo da sollevare solo il terzo superiore del viso nel caso di uno sguardo appesantito, nel terzo medio per mettere in risalto gli zigomi, o nel terzo inferiore, per ridefinire la piega mandibolare, oppure in tutte e tre le zone, a seconda della necessità. Il vantaggio ulteriore rispetto al lifting tradizionale è il risultato estremamente naturale, con incisioni piccolissime e invisibili. I fili vengono utilizzati efficacemente pure per riportare alla proiezione originale il capezzolo, anche se per ora viene prediletta la tecnica classica di mastopessi.

La chirurgia plastica ed estetica si orienta sempre più verso interventi rapidi nell’esecuzione e nel recupero post-operatorio, e per questo necessita di tecniche il meno invasive possibile. In quest’ottica l’utilizzo dei fili di sospensione sta subendo un’impennata poiché unisce risultati visibili, stabili e duraturi, a tempi di recupero rapidi.

Leggi anche: L’haute couture solleva i glutei

GLI ITALIANI TRA I PIU’ LONGEVI AL MONDO

GLI ITALIANI TRA I PIU’ LONGEVI AL MONDO

L’invecchiamento delle popolazioni rappresenta uno dei più grandi traguardi dell’umanità, ma anche una delle maggiori sfide economiche e sociali che le società si trovano a dover fronteggiare oggi. Ciò vale in particolare per l’Italia che risulta il Paese più vecchio del mondo insieme a Giappone e Germania. Sono le Marche la regione italiana che ha la più alta aspettativa di vita e l’Ogliastra (città nell’entroterra sardo) è tra le aree della Terra con maggior concentrazione di centenari. Quali sono le abitudini di vita degli abitanti dell’Ogliastra? Famiglia, senso di appartenenza alla comunità, rispetto e valorizzazione degli anziani sono gli elementi fondamentali della vita sociale, così come l’alimentazione modesta basata soprattutto su prodotti caseari (latte e formaggio di capra), legumi, orzo e vino rosso.

Un Italiano su 5, vale a dire il 21% della popolazione. Con 6 milioni di 65-74enni (10,6% della popolazione), più di 4 milioni di 75-84enni (7,6% della popolazione), oltre 1 milione e 700mila di ultra 85enni e circa 16.500 ultracentenari, quasi triplicati negli ultimi 10 anni.

Invecchiare in salute non è soltanto un obiettivo personale ma anche sociale.

In Italia l’influenza è ancora oggi la terza causa di morte per patologia infettiva dopo AIDS e tubercolosi. Ogni anno vengono colpite in media 4 milioni di persone. Negli anziani la malattia può causare complicanze tali da rendere necessario il ricovero ospedaliero, portare alla perdita dell’autosufficienza e, in casi estremi, alla morte. Sono circa 8 mila all’anno i decessi correlabili all’influenza, di cui l’80% è rappresentato da anziani. Alti tassi di mortalità si registrano anche per la polmonite pneumococcica, causa del 2% dei ricoveri ospedalieri con degenza superiore ai 10 giorni in Europa. Secondo i dati Istat, nel 2012 in Italia sono morte oltre 9.200 persone con più di 65 anni a causa dell’infezione; oltre 100 mila sono stati gli anziani dimessi per polmonite in seguito a ricovero ospedaliero. Anche l’herpes zoster, alias “Fuoco di Sant’Antonio”, è una patologia ad alto impatto sulla popolazione anziana. È destinata a soffrirne nel corso della propria vita circa 1 persona su 4, in 2 casi su 3 dopo i 50 anni. L’infezione, causata dalla riattivazione del virus della varicella contratto da bambini, colpisce ogni anno oltre 1,7 milioni di persone in Europa, circa 157 mila in Italia. Il 20-25% dei pazienti over 50 sviluppa inoltre la sua complicanza più temibile, la nevralgia post-erpetica, un dolore neuropatico talmente forte e che può perdurare per anni, tale da impedire il proseguimento di una vita normale.

LINEA CONTRO L’ACNE E PRIMO RETINOIDE IN SPRAY

LINEA CONTRO L’ACNE E PRIMO RETINOIDE IN SPRAY

L’acne colpisce le aree seborroiche del corpo: il volto in particolare, ma anche il torace e la regione interscapolare. Appare di solito nell’adolescenza 
per risolversi solitamente entro i 25-28 anni di età, ma non sono rari i casi di acne tardiva, al di sopra dei 30 anni. Difa Cooper mette a disposizione la propria esperienza (50 anni in dermatologia) con la realizzazione di una gamma completa di farmaci e coadiuvanti cosmetici improntati non solo all’ottenimento della guarigione del paziente ma anche a permettergli una migliore qualità della vita durante la terapia, nelle finestre di sospensione della stessa, o nel trattamento di una cute a tendenza acneica.

Si distinguono diverse forme di acne, con diversa gravità: da lieve a severa-nodulocisitica, ed è importantissimo il consiglio di un Medico Dermatologo che in base al quadro clinico sappia individuare la terapia più corretta per risolvere il problema. Abbiamo approfondito l’argomento e la conoscenza dei prodotti BiRetix® con il professor Stefano Veraldi, Medico Chirurgo, Specializzato in Dermatologia e Venereologia presso l’Istituto di Clinica Dermatologica I e Dermatologia Pediatrica dell’Università di Milano.

BiRetix® è una linea di cosmetici basata su una tecnologia chiamata RetinSphere®. Di cosa si tratta e come agisce su comedoni, papule, pustole?
I prodotti della linea BiRetix sono caratterizzati da una nuova tecnologia, chiamata RetinSphere®Technology, che consiste nella combinazione di un nuovo retinoide, l’idrossipinacolone retinoato, e del retinolo in glicosfere, una nanotecnologia che garantisce un’aumentata penetrazione. L’azione di queste due molecole contribuisce a migliorare il turn over cellulare e l’esfoliazione, e previene la formazione di comedoni. Un’importante azione antiradicalica, poi, è esercitata dai componenti antiossidanti, presenti in tutti i prodotti della linea Biretix.

Riguardo alla tecnologia BIOPEP 15, potrebbe spiegarci in maniera più approfondita di cosa si tratta e come agisce?
Biopep-15 è costituito da 15 aminoacidi. In vitro, si è dimostrato attivo su 24 ceppi di P. acnes, indipendentemente da genotipo/fenotipo, provenienza geografica del ceppo ed eventuale pregressa resistenza agli antibiotici.

Il BIOPEP 15 può indurre resistenze batteriche?
Fino a oggi, non sono stati descritti casi di resistenza batterica ai prodotti della linea BiRetix. Tuttavia, la resistenza batterica nei confronti del Biopep-15 è da ritenersi puramente teorica, essendo questa molecola un antisettico e non un antibiotico.

È possibile utilizzare la linea BiRetix durante il periodo estivo?
I prodotti della linea BiRetix possono essere utilizzati anche in estate, in quanto non contengono molecole fototossiche o fotosensibilizzanti. Tuttavia, è corretto applicare questi prodotti alla sera, prima o dopo la cena, e lavando poi il viso alla mattina successiva, prima di uscire. In Italia c’è l’abitudine sbagliata di sospendere i retinoidi in estate, sarebbe utile che ogni paziente venisse consigliato da uno specialista. Il sole va preso fino alle 11 della mattina e/o dopo le 17, l’esposizione di mezza giornata invece ha un’azione pro-infiammatoria.                                                                          

BiRetix® ULTRA Spray è il primo retinoide in spray. Quali sono i vantaggi?
Il BiRetix Ultra Spray è il primo retinoide in spray. La formulazione airless consente l’applicazione anche con valvola capovolta, favorendo l’applicazione sul dorso da parte del paziente stesso. Dopo la vaporizzazione, poi, non è necessario spalmare il prodotto, per cui non è necessario alcun aiuto per l’applicazione.

Esistono degli studi clinici relativi ai prodotti BiRetix?
Fino a oggi sono stati condotti sette studi clinici, di cui tre ancora in corso. In particolare, in uno studio pilota, aperto, multicentrico, la combinazione fissa di idrossipinacolone retinoato (estere sintetico dell’acido 9-cis-retinoico), retinolo in glicosfere e papaina in glicosfere in gel acquoso, è stata utilizzata per valutare l’efficacia e la tollerabilità in pazienti con acne comedonica-papulosa del volto, di gravità lieve-intermedia. Novantotto pazienti (28 maschi e 70 femmine), di età compresa tra 15 e 40 anni, sono stati trattati con il gel, una volta al giorno, per 12 settimane. La gravità dell’acne e l’efficacia del trattamento sono state valutate con il Global Acne Grading System (GAGS) e con la conta delle lesioni. Novantaquattro pazienti sono stati considerati valutabili. Sono state osservate una riduzione media del GAGS del 41% e una riduzione media delle lesioni totali del 40.8%. Il 15.3% dei pazienti ha sviluppato effetti collaterali locali (xerosi, peeling, eritema, bruciore) di gravità lieve-intermedia. Nessun paziente ha sospeso il trattamento a causa di questi effetti collaterali.                                                                                                                                                             Questo studio, basato su un notevole numero di pazienti valutabili, ha dimostrato che questa combinazione fissa rappresenta un’opzione efficace e sicura per il trattamento dell’acne del volto comedonica-papulosa, di gravità lieve-intermedia.

Professor STEFANO VERALDI

Tra le varie cariche:

Co-fondatore dell’Istituto Dermatologico Europeo (I.D.E.), Co-fondatore dell’Italian Acne Board (I.A.B.), Autore di 16 libri, 54 capitoli di libri, 279 articoli su riviste italiane e   internazionali, 238 abstracts di congressi e 2 CD (aggiornamento: gennaio 2008).

Membro del board editoriale di Dermatology Research and Practice, Dermo Cosmo News, Giornale Italiano di Dermatologia e Venereologia, Hi. Tech Dermo, L’Ideale – Periodico dell’Istituto Dermatologico Europeo, Incontri Dermatologici, Journal of Acne and Related Disorders, Journal of Plastic Dermatology, Practicing Medicine, Quaderni di Dermocosmetologia Medica e Chirurgica, Wound Care Times.

 

UN CONTRACCETTIVO ORMONALE OGNI STAGIONE

UN CONTRACCETTIVO ORMONALE OGNI STAGIONE

Una donna su dieci non sta bene quando ha le mestruazioni: emicrania, dolori addominali, flussi molto abbondanti possono costringerla a rimanere a letto uno o due giorni al mese. Questo ha un impatto molto forte non solo sul versante del benessere e della qualità di vita, ma anche sul versante economico e sociale. Ci sono donne costrette a perdere giorni di lavoro, che si sentono meno abili e più stressate, e quindi spinte a un consumo esagerato di analgesici e di assorbenti.

Per rispondere alle esigenze femminili sono nati con Teva due contraccettivi innovativi:

– uno si caratterizza per la sua composizione “naturale” e associa estradiolo a nomegestrolo,

– l’altro è rivoluzionario per la modalità di somministrazione. Si tratta del primo contraccettivo ormonale combinato (Coc) che prevede tre mesi di assunzione continua e quindi solo quattro mestruazioni all’anno. 84 compresse a base di levonorgestrel ed etinilestradiolo e 7 compresse a base di solo etinilestradiolo. Queste ultime, da assumere nei sette giorni di “interruzione” al posto del placebo, consentono di avere quattro cicli programmati in un anno e di evitare i sintomi da sospensione che possono derivare da una brusca interruzione degli ormoni. Il tutto supportato da studi clinici estensivi e dall’esperienza sul campo. La percentuale di efficacia contraccettiva è del 99% se l’assunzione è corretta; e, sospesa l’assunzione, la donna può da subito rimanere incinta.

“Abbiamo pensato alle donne. Abbiamo pensato al loro mondo, alla loro energia e alle loro esigenze quotidiane. Abbiamo pensato alla loro libertà, al loro desiderio di essere sempre in movimento. Abbiamo pensato al condizionamento che il ciclo mestruale può imporre sull’abbigliamento, sulle abitudini e sui comportamenti”, sottolinea Carlo Capo, Business Unit Branded Director di Teva Italia.

Questa opzione contraccettiva di Teva è stata presentata a Bologna, nella cornice del VII Congresso nazionale della Società Italiana della Contraccezione (SIC). Il prodotto sbarca così in Italia. Era già disponibile dal 2006 negli Stati Uniti (dove in soli due anni ha guadagnato il 25% del market share) ed è stato lanciato recentemente anche in Brasile, Cile e Israele.

Da maggio 2015 è acquistabile in Austria, e presto lo sarà anche in Polonia, Slovacchia, Belgio, Germania, Francia e Romania.

“Molte donne ritengono la mestruazione ‘rassicurante’, ma avere il ciclo mestruale non rappresenta un vantaggio reale, soprattutto quando la mestruazione viene indotta dall’uso della contraccezione ormonale: la pillola mette a riposo le ovaie e la sua sospensione dà semplicemente luogo a una mestruazione ‘artificiale’ – spiega Angelo Cagnacci, professore associato di Ginecologia e Ostetricia all’Università di Modena -. È stato dimostrato che prolungare l’intervallo tra i flussi mestruali indotti dalla sospensione della contraccezione ormonale non ha effetti negativi sulla salute. Anzi, aiuta a ridurre i disturbi e le patologie che trovano nella comparsa del flusso mestruale un loro meccanismo d’azione”.

“Con questa modalità di assunzione, senza pausa per tre mesi, si riduce a un solo sanguinamento trimestrale la mestruazione e questo consente di limitare il dolore associato in taluni casi alla sindrome premestruale, ma anche di determinare un beneficio in termini di anemia da carenza da ferro e una minor limitazione alla vita attiva e sportiva”, spiega il professor Annibale Volpe, past president della Società scientifica.

Grazie a Teva, abbiamo in ambito contraccettivo una scelta nuova, che consente sicurezza nel controllo delle nascite e garantisce maggiore libertà. Un prodotto che permette alle donne di cambiare in meglio le loro abitudini, superando le limitazioni dei cicli mestruali mensili.

UN NUOVO CENTRO PER LA CURA DEL DOLORE

UN NUOVO CENTRO PER LA CURA DEL DOLORE

Nasce il Centro Multidisciplinare di Ricerca e Formazione per la Cura del Dolore per il trattamento del dolore acuto e cronico, che si avvale della collaborazione di due eccellenze: l’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e l’Istituto Neurologico Carlo Besta. “La creazione del Centro rappresenta un passo importante per i due Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs) – commenta Giuseppe De Leo, Presidente dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano –. Si tratta di due eccellenze che si uniscono per affrontare al meglio gli aspetti riguardanti la Cura del Dolore, passando attraverso la ricerca e la formazione continua. La ricerca permette di verificare e innovare; la formazione continua permette di preparare medici e infermieri ad affrontare i diversi tipi di dolore, offrendo alle persone assistite cure adeguate e personalizzate con il necessario sostegno psicologico”.

L’obiettivo è ottimizzare le risorse esistenti e rafforzare le risposte terapeutiche. Responsabili del progetto, il dottor Augusto Caraceni, Direttore della Struttura Complessa di Cure Palliative, Terapia del Dolore e Riabilitazione dell’INT e il dottor Giuseppe Lauria, direttore della Neurologia III dell’Istituto Neurologico Carlo Besta. “Avere un progetto in comune sul dolore significa offrire la massima qualità di cura ai pazienti e potenziare la capacità di formazione e di ricerca – afferma Caraceni -. Con la nascita del Centro sarà possibile offrire un punto di riferimento regionale e nazionale di prestigio”.
Per la realizzazione del centro servono sostegno e risorse. Rotary Distretto 2041 ha creduto nel progetto. “Insieme contro il dolore. Il Rotary sostiene il progetto di Terapia del dolore insieme alla Fondazione IRCSS Istituto Nazionale dei Tumori e la Fondazione IRCSS Istituto Neurologico Carlo Besta attraverso la realizzazione del sito di crowdfunding per la raccolta di fondi on line. Ridurre o eliminare il dolore di un paziente è sempre più un dovere morale della nostra società”, precisa Walter Pera, Presidente del Rotary Club Milano Linate.

L’Istituto Neurologico “Carlo Besta” è stato fondato nel 1918 e dal 1981 è classificato come Istituto di Ricerca e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS). Il 15 luglio 2006 è stato trasformato in Fondazione con personalità giuridica di diritto pubblico. E’ uno dei maggiori centri nazionali e internazionali per la ricerca e la cura delle patologie neurologiche. 

L’Istituto Nazionale dei Tumori (INT), fondato nel 1928, è un polo di eccellenza per la diagnosi e terapia di tutte le patologie neoplastiche. E’ riferimento nazionale e internazionale per la ricerca di nuove cure attraverso il coinvolgimento diretto dei pazienti, oltre che centro specializzato nel settore della ricerca biomedica. In tal senso, INT è l’Ente attuatore della Rete Oncologica Lombarda (ROL) e coordina le strutture oncologiche pubbliche e private accreditate operanti in Regione Lombardia. Oggi l’Istituto è il maggior polo di oncologia pediatrica in Italia e  il secondo in Europa, ed è il primo Centro in Italia per buon esito dei trapianti di fegato e per il corretto funzionamento degli organi impiantati come cura al tumore epatico. INT è anche centro di riferimento per i Tumori Nuroendocrini. La certificazione è stata conferita nel 2010 dall’European Neuroendocrine Tumor Society (ENETS), la più importante società scientifica  europea per lo studio e la cura di queste formazioni neoplastiche, che ha giudicato l’Istituto Nazionale dei Tumori tra i migliori dieci centri in Europa in questo campo. Da febbraio 2015 INT fa parte del polo centrale universitario dell’Università di Milano, come punto di  riferimento in ambito oncologico.

IL SOLE PER AMICO E I CONSIGLI DI LICIA COLO’

IL SOLE PER AMICO E I CONSIGLI DI LICIA COLO’

Con l’estate aumentano le occasioni di esposizione non protetta ai raggi UV del sole, principale fattore di rischio. Ma durante tutto l’anno il crescente uso di lampade abbronzanti e di lettini solari espone la popolazione, soprattutto i più giovani, ai raggi UV artificiali, considerati cancerogeni dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e, in Italia, vietati ai minorenni.

Per accendere i riflettori sul rischio melanoma e sull’importanza di una corretta esposizione al sole, IMI (Intergruppo Melanoma Italiano), con il patrocinio del Ministero della Salute e dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica hanno dato vita a “Il Sole per amico”, una campagna nazionale di prevenzione primaria del melanoma. Madrina della campagna è Licia Colò che interpreta anche uno spot di sensibilizzazione in onda su network televisivi e radiofonici nazionali.

Licia Colò, viaggiatrice esperta di latitudini “rischiose” e mamma di una bambina spiega che si sente vicina ai messaggi di questa campagna, anche perché al sole si scotta facilmente a causa del suo fototipo. “Proteggere noi e i nostri figli è una questione di conoscenza e di buone abitudini. Se in passato sono stata poco attenta, oggi proteggo me stessa e mia figlia con creme ad alta protezione, cappello e occhiali da sole”.

foto COLO'

Qual è il suo rapporto con il sole?

Per me sole significa vita; io che adoro i Paesi Scandinavi ad esempio, ma non potrei pensare di vivere lì per il poco sole che c’è per sei mesi l’anno. Adoro prendere un po’ di sole e abbronzarmi leggermente e mi espongo soprattutto in primavera quando i raggi UV sono meno intensi e più gradevoli. D’estate avverto che il sole mi procura dei fastidi, la mia pelle brucia, dopo la prima esposizione compare subito l’eritema. Quindi, nei mesi più caldi, mi riparo il più possibile all’ombra e comunque proteggo la pelle. Ho chiesto spesso al mio dermatologo il motivo di questa reazione cutanea ai raggi solari e mi ha risposto che la pelle ha buona memoria. Negli anni mi sono accorta di averla trascurata molto: non mi proteggevo quando ero al sole, la cute iniziava a spellarsi dopo qualche giorno e l’abbronzatura scompariva in poco tempo. Adesso ho capito che il segreto è proteggersi sempre con prodotti adatti, indossare anche una maglietta leggera, il cappello e gli occhiali. Non ho più fastidi, non mi spello più e l’abbronzatura dura molto a lungo. Ma soprattutto non rischio la vita e del sole prendo solo i benefici.

Lei ha viaggia molto nel mondo e si trova spesso in situazioni nelle quali era esposta ai raggi solari, anche in zone tropicali e per molte ore.

Quali sono le strategie che utilizza per proteggere la sua pelle molto chiara e sensibile?

Sono sincera, fino a qualche anno fa non prestavo attenzione a particolari situazioni di pericolo per la mia pelle: da sempre soffro molto il caldo e quando il sole era troppo forte mi limitavo a indossare il cappello, ma non ero molto attenta rispetto all’uso di creme con filtro solare. Con il passare del tempo ho cambiato però le mie abitudini, ho iniziato ad informarmi e sono diventata molto più consapevole. Oggi mi proteggo sempre con creme ad alta protezione e, naturalmente, continuo ad indossare il cappello e gli occhiali da sole. Sono molto attenta anche a proteggere la mia bambina. Con i più piccoli al mare è un po’ più difficile: si bagnano continuamente, bisogna essere costanti, applicare e riapplicare più volte il solare e non esporsi nelle ore più calde. Accortezze da usare anche se si va in montagna.

Perché ha deciso di sostenere la campagna “Il Sole per amico”?

Mi sento particolarmente vicina ai messaggi di questa campagna, anche perché al sole mi scotto facilmente a causa del mio fototipo chiaro. Il sole è bellissimo e fa bene alla nostra salute ma può essere anche causa di molti problemi, il più importante dei quali è senza dubbio il melanoma, il più pericoloso dei tumori cutanei. Quasi vent’anni fa mi trovavo in Australia per motivi di lavoro e ricordo di avere visto sulle spiagge persone e cartelli che facevano circolare avvisi del tipo “attenzione, proteggete la pelle dal sole”, oppure “non esponetevi al sole senza adeguata protezione”. Per me, che arrivavo dall’Italia, si trattava di una novità: a quei tempi non si parlava di prevenzione, gli stessi medici non parlavano dei rischi legati ad una esposizione eccessiva e non adeguatamente protetta. Oggi io stessa ho maggiore consapevolezza del problema e penso che questa campagna sia una grande opportunità per diffondere, tra la popolazione, una corretta informazione su come godersi il sole senza danneggiare la pelle e rischiare la vita. Il tema mi riguarda molto da vicino anche per la mia personale familiarità per i tumori cutanei, tanto che ogni anno mi sottopongo a uno screening accurato dei nei dal dermatologo. Trovo, inoltre, che la campagna “Il Sole per amico” sia davvero ben fatta, non allarmistica ma intelligente, come dovrebbero essere tutte le campagne che riguardano la prevenzione primaria. Il sole non è un nemico, è un amico al quale avvicinarsi con buon senso.

Secondo lei quanto sono informati i cittadini su questo tema?

In genere la popolazione è poco informata su questi temi: io stessa prima di alcune vicende familiari sapevo poco di melanoma e non mi rendevo ben conto di come il sole, preso senza adeguata protezione, possa nuocere alla pelle. Il melanoma è subdolo, si mimetizza su una pelle che non è mai omogenea, s’insinua e non ce ne accorgiamo. Non ci rendiamo conto del problema perché siamo molto “visivi” nei confronti del pericolo: se vediamo un treno avvicinarsi siamo consapevoli del pericolo e ci allontaniamo, ma il tumore della pelle ­(se non hai un occhio esperto o sensibilizzato) è difficilmente riconoscibile e, quindi, non temuto. Esiste anche un fattore culturale che può giocare un ruolo importante: il sole è legato all’idea di salute e di bellezza, essere abbronzati è sano, non c’è dubbio. Quel che manca è l’informazione corretta: l’abbronzatura è bella se protetta, perché, oltre a donarci un bell’aspetto, non mette in pericolo la salute della nostra pelle. Proteggersi dai raggi solari e proteggere i nostri figli sin da piccoli è una questione di conoscenza oltre che di buone abitudini. I media potrebbero avere un ruolo cruciale nella comunicazione e nella diffusione di queste informazioni e si dovrebbe investire di più in campagne come questa perché il melanoma continua ad aumentare a dismisura specie tra i giovani, con costi altissimi dal punto di vista economico ma, soprattutto, di vite umane.

La campagna “Il sole per amico” ha tra i suoi obiettivi anche quello di ridurre o evitare esposizioni ambientali dannose per la salute, sottolinea i rischi prodotti dall’eccessiva esposizione ultravioletta solare e artificiale.

UNA NUOVA AZIENDA RICCA DI CERTIFICAZIONI E COMPLETAMENTE MADE IN ITALY

UNA NUOVA AZIENDA RICCA DI CERTIFICAZIONI E COMPLETAMENTE MADE IN ITALY

Una collezione di certificazioni, un accorgimento particolare caratterizza il packaging e un’attenzione ai non vedenti: l’azienda è l’italianissima

KoLinPHARMA.

KoLinPHARMA ha infatti ottenuto per i suoi prodotti certificazioni tutt’altro che frequenti nel settore nutraceutico: anzitutto quelle che si riferiscono alla qualità e alla sicurezza alimentare, come la ISO 9001 e la ISO 22000 (quest’ultima rappresenta il più elevato standard procedurale nella Sicurezza Alimentare che un’azienda possa impiegare), quindi la certificazione Halal, la Kosher, la certificazione per la celiachia e la certificazione ‘milk free’, in corso di rilascio. I prodotti dell’azienda saranno così:

– privi di glutine e possono essere assunti da celiaci

– non contengono sodio, possono essere assunti da ipertesi

– non contengono lattosio e derivati del latte

– possono essere assunti da vegetariani e vegani

Passando ai particolari accorgimenti che caratterizzano il packaging dei prodotti KoLinPHARMA, tutto il materiale cartaceo dell’azienda e gli astucci dei diversi integratori nutraceutici sono fabbricati con carta o cartoncino 100% riciclati, certificati ‘Forest Stewardship Council’, principale meccanismo di garanzia sull’origine del legno e della carta. Le confezioni dei prodotti KoLinPHARMA riportano in caratteri Braille anche la data di scadenza (non limitandosi quindi a indicare principio attivo e dosaggio). Sono dotati anche di un QR code (anche questo localizzabile con rilievi in Braille) che rinvia direttamente, attraverso qualunque smartphone, a un ‘foglietto illustrativo’ riservato a chi non può leggere. Una voce sintetizzata descrive all’utente caratteristiche, indicazioni d’impiego e modalità d’uso del prodotto: per evitare errori di somministrazione, ma anche per eliminare una notevole difficoltà e un considerevole elemento di discriminazione nei confronti dei non vedenti. Per la conformità di legge del braille sui prodotti l’azienda ha ricevuto la certificazione anche dall’UCI (Unione Italiana dei Cechi e degli Ipovedenti).

KoLinPHARMA ha poi rilevato che è sistematicamente trascurato, soprattutto nei confronti dei non vedenti, il diritto a esser certi che la confezione di farmaci o di integratori sia sigillata, e non sia mai stata aperta in precedenza. Per questo la nuova azienda ha collaborato con un importante partner nell’ideazione di una chiusura “tamper evident” brevettata per tutti i propri astucci. Grazie a questo accorgimento, l’apertura di ciascuna confezione sarà inevitabilmente attestata non solo da un apposito campo cromatico (subito evidente per chi sia in possesso delle facoltà visive), ma anche da una netta punta di cartoncino, percepibile al tatto, che consentirà anche ai non vedenti di esser sicuri che quel prodotto è stato aperto o ha subito manomissioni.

L’ASSISTENZA INFERMIERISTICA SECONDO UN’INDAGINE CENSIS

L’ASSISTENZA INFERMIERISTICA SECONDO UN’INDAGINE CENSIS

La domanda di assistenza infermieristica sul territorio è in continua crescita, nonostante persistano disoccupazione e sottoccupazione degli infermieri: un paradosso causato anche dal blocco delle assunzioni nel settore pubblico.
“C’è un numero considerevole di cittadini che ha bisogno di assistenza e si impegna economicamente per ottenerla, rivolgendosi in quota parte agli infermieri – spiega Annalisa Silvestro, Presidente della Federazione IPASVI –. Ma c’è anche chi utilizza un fai-da-te pericoloso, che va fino alla ricerca di soluzioni su internet, cosa che porta spesso a ricorrere poi al Pronto Soccorso. E c’è una parte di cittadini che si rivolge a personale non professionale e impreparato (badanti, familiari, conoscenti). Persone disposte ad aiutare ma senza competenze che possono far aumentare il rischio di manovre sbagliate e di impatti avversi per l’assistito”.
Dall’indagine Censis emerge che per l’82% degli intervistati la scelta di affidarsi a soggetti diversi dagli infermieri per alcune prestazioni è legata a questioni economiche (il 51% ritiene che pagare in modo continuativo un infermiere costi troppo e il 31,1% afferma che le badanti costano meno).
Ma il dato più macroscopico riguarda le carenze di assistenza sul territorio. Il 17,6% dei cittadini ha dichiarato di doversi arrangiare con altri perché gli infermieri non possono coprire orari lunghi nelle abitazioni, e il 10,1% che non ci sono abbastanza infermieri che vanno a domicilio: è qui, quindi, che il Servizio Sanitario Nazionale non c’è più”.
Nel dettaglio sono 8.700.000 gli italiani che nel 2014 hanno usufruito di prestazioni di assistenza infermieristica erogata privatamente e hanno speso per questa, di tasca propria, 2,7 miliardi di euro. Di questi, 6.900.000 assistiti hanno chiesto prestazioni una tantum, mentre 2.300.000 hanno avuto bisogno di prestazioni continuative. Ad aver bisogno di un’assistenza che il Servizio Sanitario Nazionale non ha garantito sul territorio sono stati il 44,4% dei non autosufficienti (1.400.000 persone), il 30,7% dei malati cronici (2.800.000) e il 25,7% degli ultrasettantenni (2.300.000).

editoI dati sono quelli della ricerca del Censis “Infermieri e nuova sanità: opportunità occupazionali e di upgrading. Le prestazioni infermieristiche nella domanda di assistenza sul territorio”, elaborata per la Federazione dei Collegi IPASVI in occasione del XVII Congresso nazionale, che si è tenuto a Roma e che ha riunito gli infermieri d’Italia per dibattere sul ruolo di questa figura professionale nella nuova Sanità e per sancire un nuovo Patto per l’assistenza con i cittadini.
Oltre 4.200.000 italiani nei dodici mesi precedenti l’intervista del Censis si sono rivolti a figure non infermieristiche (badanti, familiari, conoscenti, etc.) per avere prestazioni di tipo sanitario. Queste le ragioni: fiducia nella persona cui si fa ricorso (42%), costo eccessivo di un infermiere (33,7%), convinzione che per alcune prestazioni in realtà l’infermiere non sia indispensabile (31,5%). La maggioranza si dichiara tutto sommato soddisfatta delle prestazioni avute, e giudica gli eventuali danni subiti “residuali”.
Per il 50,9% degli italiani esistono prestazioni semplici (iniezioni o medicazioni), per cui l’infermiere non è indispensabile. Il dato è più elevato tra gli anziani (55,4%), che sono consumatori più intensi di prestazioni infermieristiche.
Tra coloro a cui si è fatto ricorso, le badanti sono una figura emblematica: nelle case in cui lavorano, gestiscono le terapie farmacologiche (88,8%), fanno iniezioni (32,3%), si occupano di eventuali bendaggi e medicazioni (30,4%), intervengono in caso di esigenze sanitarie che di solito richiedono il ricorso a infermieri (20,5%) e gestiscono l’uso del catetere (6,2%). Il 51,5% delle persone che impiegano una badante ritengono che la propria badante sia capace di svolgere prestazioni infermieristiche e il 30,6% la considera in grado di intervenire in caso di emergenze sanitarie.
Bisogna però considerare, come si è detto prima, che la mancanza di formazione di questo tipo di personale potrebbe arrecare danno agli assistiti, e che vi sono casi in cui l’intervento di personale infermieristico è essenziale. Il 51% degli italiani che ricorre alla badante per prestazioni sanitarie lo fa, in effetti, perché pagare un infermiere in modo continuativo sarebbe troppo costoso.
“L’assistenza è un’arte e se deve essere realizzata come un’arte, richiede una devozione totale e una dura preparazione”, Florence Nightingale, infermiera britannica nata a Firenze, nel 1820, e considerata la fondatrice dell’assistenza infermieristica moderna.

NUOVE TERAPIE IN STUDIO PER LA SINDROME DELL’OCCHIO SECCO

NUOVE TERAPIE IN STUDIO PER LA SINDROME DELL’OCCHIO SECCO

Le lacrime sono un elemento fondamentale per la salute dell’occhio: è proprio lo strato di lacrime, il film lacrimale, a rivestire e proteggere la superficie oculare e la superficie interna delle palpebre. Durante il giorno un adulto produce mediamente 1-2 microlitri di lacrime al minuto. La costante produzione di lacrime è necessaria perché almeno un terzo del liquido prodotto evapora, e l’ammiccamento, che si ripete per almeno cinque volte al minuto, ha il compito di ripristinare il film lacrimale.

“Le lacrime sono fondamentali per la salute dell’occhio – precisa il Professor Stefano Bonini, Direttore della Cattedra di Oftalmologia del Campus Bio-Medico di Roma –. Distribuendosi sulla superficie oculare grazie all’ammiccamento delle palpebre, consentono infatti di mantenere lubrificato l’occhio. È sempre grazie al film lacrimale che l’occhio viene protetto da eventuali sostanze estranee e che la cornea riceve le necessarie sostanze nutritive. Per questi motivi occorre prestare sempre maggior attenzione alla comparsa dei sintomi tipici della patologia dell’occhio secco, affinché lo specialista possa intervenire tempestivamente e nel modo più appropriato, ripristinando la stabilità della pellicola lacrimale che deve sempre avere una componente acquosa, una grassa e una mucosa. Proprio per questo sono attualmente in sviluppo nuovi trattamenti che nel futuro potranno consentire di rispondere meglio ai bisogni non ancora completamente soddisfatti di molti pazienti”.

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Nuove ricerche infatti si stanno sviluppando in ambito oftalmologico. “Si sta lavorando per individuare nuovi trattamenti. In particolare la Lubricina, un lubrificante naturalmente presente nell’organismo – riferisce Eugenio Aringhieri, CEO Gruppo Dompé –. Un ulteriore segnale di come la ricerca possa aprire percorsi terapeutici finora inesplorati”.

La sindrome dell’occhio secco può manifestarsi con sintomi e intensità molto diversi; i più comuni comprendono: bruciore, arrossamenti, sensazione di corpo estraneo nell’occhio, fastidio alla luce, difficoltà nell’apertura della palpebra al risveglio e, nei casi più severi, dolore e vista appannata.

Tra i fattori di rischio più frequenti:

  • nel sesso femminile alcuni ormoni concorrono alla produzione di lacrime; una variazione nei livelli ormonali può quindi portare a una riduzione della produzione di lacrime naturali. Per questo motivo, la comparsa della sindrome dell’occhio secco è più frequente nella donna, specialmente nelle fasi in cui si sviluppano profonde modificazioni del profilo ormonale: durante la gravidanza, la menopausa o, ancora, in postmenopausa, periodo in cui di frequente sono somministrate delle terapie estrogeniche;
  • età avanzata: gli anziani sono più esposti alla patologia, in quanto con il tempo può verificarsi una progressiva atrofizzazione delle ghiandole lacrimali, con una conseguente minor produzione di lacrime;
  • farmaci e terapie: alcuni trattamenti come la radioterapia e diversi medicinali possono influire sulla comparsa del disturbo. Per questo occorre prestare particolare attenzione alla salute oculare in caso di trattamento con ormoni, medicinali immunosoppressori (ad esempio per patologie autoimmuni), antidepressivi e colliri;
  • condizioni ambientali: l’esposizione protratta in ambienti con aria condizionata, lo smog, il fumo di sigaretta e i climi particolarmente asciutti, soleggiati o ventosi possono indurre secchezza oculare;
  • frequente utilizzo di videoterminali, smartphone e tablet: la permanenza prolungata di fronte a pc, smartphone e tablet può aumentare il rischio di comparsa della sindrome dell’occhio secco a causa della costante attenzione visiva rivolta al monitor, associata alla diminuzione della frequenza dell’ammiccamento;
  • uso frequente e prolungato di lenti a contatto, che possono contribuire all’evaporazione delle lacrime causando secchezza e irritazione oculare;
  • chirurgia refrattiva: si ipotizza che la riduzione della sensibilità corneale sia alla base della riduzione dell’ammiccamento e della secrezione lacrimale in pazienti che si sono sottoposti a un intervento di correzione di vizi di refrazione quali, ad esempio, la miopia.

La sindrome dell’occhio secco, infine, può comparire come manifestazione oculare di alcune malattie autoimmuni, quali ad esempio la sindrome di Sjogren, il lupus eritematoso sistemico, l’artrite reumatoide, la sclerodermia, la psoriasi.

IL TUMORE AL POLMONE E LA MEDICINA PERSONALIZZATA

IL TUMORE AL POLMONE E LA MEDICINA PERSONALIZZATA

“Nell’80% dei casi il tumore del polmone è correlato al fumo di sigaretta: un fumatore che consuma 20 sigarette al giorno per vent’anni ha un rischio del 2.000% di ammalarsi, mentre il fumo passivo aumenta questo rischio del 20-30% – dichiara il professor Andrea Ardizzoni, Direttore della Struttura Complessa di Oncologia Medica dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Parma –. Il carcinoma polmonare è una malattia tipica dell’età avanzata: la diagnosi avviene di solito attorno ai 65-70 anni, ma, a causa dell’invecchiamento della popolazione, l’età si sta spostando oltre. Grazie alla legge Sirchia abbiamo assistito a una flessione annua (- 2% annuo) dei tumori polmonari negli uomini, si riscontra però un aumento della patologia tra le donne. Un fenomeno emergente è la comparsa di tumori polmonari tra le persone che non hanno mai fumato”.
Da alcuni anni lo studio dell’assetto genico del cancro ha modificato radicalmente la classificazione dei tumori polmonari. È ormai superata la tradizionale distinzione tra carcinoma polmonare “a piccole cellule” e “a grandi cellule”: all’interno del carcinoma polmonare “non a piccole cellule” (NSCLC) vengono distinti tumori anaplastici, squamosi e non squamosi, questi ultimi chiamati adenocarcinomi. Tale distinzione è imprescindibile per identificare l’opzione terapeutica corretta, scelta sulla base delle informazioni istologiche e genetico-molecolari del singolo tumore.
La scoperta dei diversi tipi di tumore polmonare “non a piccole cellule” ha permesso di compiere, nell’ultimo decennio, enormi progressi sul fronte dello sviluppo di nuove terapie che agiscono in modo mirato su specifiche mutazioni geniche. La molecola più recente è crizotinib, terapia mirata per il recettore ALK.

I benefici di questa molecola, sia nel prolungare la sopravvivenza libera da malattia, sia nel migliorare la sintomatologia e la qualità di vita, sono talmente importanti che lo studio di fase I è stato considerato sufficiente per l’approvazione e la registrazione del farmaco da parte dell’FDA. In Europa il farmaco è stato autorizzato dall’EMA a fine ottobre 2012 e, al momento, in Italia è disponibile attraverso i meccanismi previsti dalla legge 648.
La medicina personalizzata e la conoscenza dei meccanismi molecolari alterati aprono nuove prospettive di cura, consentendo di trattare per la prima volta anche tumori finora privi di una terapia specifica, come quelli ALK-positivi, e migliorando la qualità di vita dei pazienti.

Ecco alcune precisazioni del professor Andrea Ardizzoni.

Il tumore del polmone è la neoplasia con il maggior tasso di incidenza e di mortalità nel mondo. Quali sono i numeri della diffusione di questo big killer nel nostro Paese?

Il carcinoma polmonare si posiziona tra i principali big killer al mondo, con picchi di incidenza più elevati nei Paesi industrializzati e in alcuni Paesi emergenti quali Cina, India e Sud America. In Italia si ipotizzano per il 2014 (dati AIOM-AIRTUM) almeno 39 mila nuove diagnosi, che incideranno per 1/4 sulla popolazione femminile e per 3/4 su quella maschile. Nel complesso, le nuove diagnosi di carcinoma polmonare rappresentano l’11% di tutti i nuovi casi di tumore. Si stima che il rischio di sviluppare un tumore del polmone nel corso della vita riguardi un uomo su 9 e una donna su 36, indipendentemente dai fattori di rischio.

 

Quali sono i fattori di rischio e le fasce di popolazione più colpite?

Il principale imputato nel favorire la comparsa di un carcinoma polmonare è il fumo di tabacco:
l’80-90% dei tumori polmonari è strettamente correlato a questa abitudine e la migliore prevenzione è evitare di iniziare a fumare. Altri fattori di rischio sono rappresentati da sostanze tossiche ambientali quali asbesto, nichel e in misura minore cromo, e da inquinanti atmosferici, in particolare polveri sottili.

Un fenomeno emergente è la comparsa di tumori polmonari tra le persone che non hanno mai fumato. Le stime confermano una maggiore incidenza al Nord, specie nella popolazione femminile, per quanto riguarda l’Italia, e un’incidenza in netto aumento nel Paesi dell’Est europeo (Romania, Bulgaria, Turchia, Russia, Polonia), in India, in Cina, in Giappone, e in America del Sud, dove l’abitudine al fumo di sigaretta è radicata e la legislazione meno rigorosa.

In Oncologia si sta affermando il concetto di medicina personalizzata: cosa si intende e quali sono i vantaggi?

L’idea di personalizzare le cure e l’assistenza si è diffusa a tutte le branche della medicina, non solo in Oncologia. Il principio su cui si fonda la cosiddetta medicina personalizzata è quello di tendere a una cura sempre più “ritagliata” sul paziente, al quale va riconosciuta centralità all’interno del percorso diagnostico-terapeutico-assistenziale. Il concetto di medicina personalizzata nasce dal presupposto secondo il quale ogni individuo è diverso, e una stessa malattia si manifesta, evolve e risponde ai trattamenti in maniera del tutto individuale. Una volta acquisita e letta questa sorta di “carta di identità” del paziente e della patologia, attraverso la conoscenza delle diversità individuali, delle caratteristiche del tumore e di come esso possa rispondere ai vari trattamenti, dei molteplici fattori che possono indurre la patologia e pronosticarne l’evoluzione, si sceglie la terapia che presenti il miglior rapporto rischio/beneficio per quello specifico paziente, con significativi miglioramenti in termini di efficacia e qualità di vita.

Alla luce dello sviluppo della medicina personalizzata come evolvono l’approccio e le tecniche diagnostiche nel NSCLC?

In passato il tumore polmonare veniva classificato in modo molto pragmatico in microcitoma (tumore polmonare a piccole cellule, aggressivo, non operabile e sensibile alla radioterapia e alla chemioterapia) e non microcitoma (tumore polmonare a grandi cellule/adenocarcinoma, meno aggressivo, operabile se possibile, ma meno responsivo alle terapie mediche). Una classificazione grossolana basata esclusivamente sul quadro istologico. Attualmente le informazioni che riusciamo a ottenere sono molto più numerose e di conseguenza anche la classificazione è più articolata. All’interno del carcinoma polmonare inquadrato come NSCLC abbiamo individuato un’ulteriore sottoclassificazione: tumori squamosi e non-squamosi, questi ultimi comprensivi degli adenocarcinomi e dei carcinomi a grandi cellule. Tale distinzione è imprescindibile ai fini della scelta terapeutica, che ormai viene declinata sulla base delle informazioni istologiche e, soprattutto, genetico-molecolari del tumore.

L’oncologo deve poter contare, oltre che sull’esame microscopico, su una diagnosi fondata sulle caratteristiche molecolari della neoplasia. Il patologo interviene con sofisticate indagini di diagnostica genetica e molecolare all’interno del DNA della cellula tumorale per individuare e riconoscere specifiche alterazioni dei geni. Attualmente sappiamo che essi possono andare incontro a rotture che, se non vengono autoriparate, danno il via a una moltiplicazione cellulare incontrollata. La possibilità di scoprire specifiche alterazioni geniche ha contribuito alla messa a punto di terapie mirate a specifici bersagli genici o molecolari. È questa l’evoluzione più importante alla quale stiamo assistendo anche nel campo dei tumori polmonari NSCLC.

 

Per alcune forme di tumore l’avvento di terapie mirate ha rappresentato una svolta in termini di sopravvivenza e di qualità di vita. Quali sono i risultati e le prospettive di questo approccio nel trattamento del tumore del polmone?

Trattare alcuni tumori polmonari in maniera innovativa è già possibile. In particolare possiamo intervenire nella pratica clinica su due alterazioni geniche. La prima è la mutazione o delezione del gene EGFR (Epidermal Growth Factor Receptor) che codifica per un recettore cellulare (una specie di serratura sulla superficie della cellula tumorale) al quale si lega un importante fattore di crescita cellulare (una sorta di chiave che apre la serratura). Quando è presente questa alterazione molecolare disponiamo di uno specifico farmaco che entra nella cellula e blocca la proliferazione cellulare indotta dal legame del fattore di crescita con il suo recettore (la chiave non riesce più a girare nella serratura). In termini assoluti solo un tumore polmonare su dieci presenta questa mutazione, ma il 40-50% dei tumori NSCLC che si manifestano nei soggetti non fumatori è caratterizzato dall’alterazione EGFR.

Per questa alterazione sono già disponibili due terapie mirate, piccole molecole, gefitinib ed erlotinib e una terza è in arrivo, afatinib, approvata dagli enti regolatori europei. I risultati sono piuttosto incoraggianti dal momento che nell’80-90% dei casi il tumore regredisce, e a volte scompare del tutto, con miglioramento della sintomatologia e anche della qualità di vita, dato che questi farmaci si assumono per via orale, hanno scarsa tossicità e consentono al paziente di evitare la chemioterapia.

La seconda alterazione riguarda un gene denominato ALK (identificato per la prima volta nei linfomi anaplastici), presente in una piccola percentuale (5%) di NSCLC. Questa alterazione molecolare si manifesta prevalentemente nei giovani, nei non fumatori o nei fumatori moderati. A causa di un riarrangiamento, il gene ALK modifica la sua posizione all’interno del cromosoma con conseguente produzione di una proteina alterata che stimola la trasformazione cellulare e la crescita incontrollata. Al momento, per i pazienti pretrattati affetti da NSCLC ALK+ è indicato il farmaco crizotinib.

Il tumore del polmone è molto intelligente ed è in grado di trovare meccanismi di escape anche a terapie precise sviluppando nel tempo una resistenza pure nei confronti di farmaci molto mirati a target molecolare. È sufficiente che una sola cellula resistente sopravviva al trattamento perché possa moltiplicarsi e dare origine a un carcinoma completamente diverso, costringendo il patologo e l’oncologo a una nuova caratterizzazione della neoplasia, come se si trattasse di una prima diagnosi. Pertanto bisognerà eseguire nuovamente una biopsia, con lo studio delle caratteristiche istologiche e genetico-molecolari, per poter ridefinire la strategia terapeutica più adatta.

 

Nell’ambito del tumore del polmone quali sono i marker molecolari per i quali ci si può aspettare in futuro terapie mirate?

È ovvio che la ricerca non si ferma. Ci sono altre alterazioni che cominciano ad affacciarsi e per le quali arriveranno nuovi farmaci mirati. Un esempio è l’alterazione ROS1, diversa da ALK, ma pur sempre dovuta a un riarrangiamento di un gene che, a quanto sembra dai primi risultati di studi clinici, risponde bene a crizotinib. Questa mutazione è piuttosto infrequente, si rintraccia infatti in appena l’1% dei tumori polmonari NSCLC.

Un’altra è costituita dalla mutazione del gene BRAF, per la quale abbiamo già un farmaco potenzialmente efficace in commercio per il trattamento di alcuni tumori della pelle. Anche in questo caso si tratta di una mutazione rara, presente nell’1-2% dei tumori NSCLC. Ancora, in una percentuale molto bassa (<1%) di NSCLC è presente la mutazione del gene HER2 che rende questi carcinomi sensibili a un anticorpo monoclonale, trastuzumab. Infine, con una frequenza piuttosto consistente, circa il 30%, riscontriamo l’alterazione del gene KRAS dovuta a una vera e propria rottura indotta dai componenti del fumo di sigaretta. Per questi pazienti, circa 1/3 di quelli con tumore NSCLC, non è ancora disponibile una terapia specifica in quanto le poche sperimentate non hanno dato i risultati sperati. In totale per il 50% dei tumori polmonari al momento non si è riusciti ancora ad identificare un’alterazione genica dominante, tale da rappresentare la causa principale della patologia. Per questi pazienti disponiamo delle terapie tradizionali, chemio e radio, che seppur in modesta misura negli anni sono in qualche modo migliorate in quanto a efficacia e tollerabilità.

 

IL TUMORE AL POLMONE

Il tumore del polmone rappresenta la principale causa di morte per tumore nel mondo industrializzato, con oltre un milione di decessi in entrambi i sessi, ed è in costante crescita in Paesi emergenti quali Cina, India, Brasile dove l’abitudine al fumo è consolidata.

Questa neoplasia è spesso sottodiagnosticata a causa di una sintomatologia subdola, o in molti casi assente, ed è circondata ancora oggi da paure e tabu per la sua grande diffusione, per la mancanza di terapie in grado di assicurare la guarigione e anche per lo stigma che colpisce i fumatori che si ammalano.

 

Epidemiologia

Negli Stati Uniti, 200 mila sono le nuove diagnosi ogni anno, in Europa sono 350 mila, mentre in Italia per il 2014 si attendono circa 39 mila nuovi casi, con un’incidenza pari all’11% di tutti i tumori e con circa 35 mila decessi (dati AIOM-AIRTUM).

La percentuale di sopravvivenza dopo aver ricevuto una diagnosi di tumore polmonare e avere effettuato un trattamento è inferiore rispetto a quella di altri tumori perché raramente questo cancro viene individuato in uno stadio iniziale. A 5 anni sopravvive un paziente su 10. L’età in cui il tumore del polmone di solito si manifesta è tra i 55 e i 75 anni. Negli ultimi anni si riscontra una maggiore incidenza di questo tumore tra le persone di 40-50 anni, tra i non fumatori e gli ex fumatori e, soprattutto, tra le donne, fumatrici e non fumatrici.

Fattori di rischio

L’esposizione al fumo di tabacco, incluso il fumo passivo, protratta negli anni è la causa nell’80-90% dei casi di tumore del polmone. Il fumo, in conseguenza delle sostanze chimiche che si sprigionano dalla combustione del tabacco, danneggia in maniera irreversibile le cellule e i vasi sanguigni del tessuto bronchiale e polmonare nonché quelli di molti altri organi (bocca, laringe, faringe, trachea, esofago, occhio, vescica, rene, collo uterino, pancreas). Non iniziare a fumare o smettere precocemente è la sola arma preventiva disponibile.

Altri fattori di rischio riguardano l’esposizione ad agenti cancerogeni ambientali quali amianto (asbesto), radon, nichel, arsenico, e in misura ridotta cromo; pesante l’azione degli inquinanti atmosferici, in particolare le polveri sottili.

Oltre alle cause “esterne”, che aumentano il rischio di ammalarsi di tumore polmonare, esiste una predisposizione personale, ossia vi sono persone che possono ammalarsi più facilmente rispetto ad altre. Queste persone non sono purtroppo individuabili a priori, poiché la predisposizione ad ammalarsi dipende da alterazioni del codice genetico (o DNA) che non sono ancora state interamente identificate.

Sintomi

Uno dei motivi per cui il tumore del polmone non viene riconosciuto per tempo riguarda il modo e i tempi in cui si manifesta. Segni e disturbi non sempre compaiono, e a volte i sintomi si presentano quando la malattia è ormai conclamata e in stato avanzato di diffusione. Solo il 15% dei tumori polmonari è diagnosticato nella fase iniziale.

La sintomatologia è subdola, aspecifica, tanto da far pensare ad altre patologie minori come un’influenza, una bronchite, una banale raucedine da freddo molto frequente tra i fumatori.

Possono essere considerati segnali di allarme:

  • tosse, può variare da qualche colpo nelle 24 ore, a una forma persistente. Può essere secca o produttiva con catarro;
  • emoftoe, catarro con striature di sangue rosso vivo;
  • dolore al petto che può irradiarsi alla spalla e al braccio e muta di intensità cambiando di posizione;
  • dispnea, mancanza di fiato;
  • infezioni respiratorie ricorrenti quali bronchiti, broncopolmoniti, polmoniti.

Altri segnali d’allarme da non sottovalutare sono: cambiamento della voce, perdita di appetito, perdita di peso, spossatezza senza motivo apparente. Quando il tumore inizia a diffondersi possono manifestarsi sintomi quali mal di testa, dolori ossei e articolari, febbricola, ingiallimento della sclera dell’occhio e della cute, che vanno sotto il nome di sindrome paraneoplastica.

 

Classificazione e sottotipi di tumore polmonare

Il tumore del polmone prende origine dalle cellule che rivestono tutte le vie aeree superiori e inferiori. La prima cellula che diventa neoplastica è una cellula bronchiale. La classificazione del tumore polmonare si basa prima di tutto sulle caratteristiche microscopiche delle cellule, il cosiddetto quadro istologico che permette di distinguere:

  • carcinoma del polmone a piccole cellule, SCLC (small cell lung cancer), chiamato comunemente microcitoma o carcinoma a cellule a chicco di avena, che rappresenta il 15% di tutte le forme neoplastiche del polmone, tanto aggressivo che nel 75% dei casi alla diagnosi è già metastatizzato;
  • carcinoma del polmone non a piccole cellule, NSCLC (non small cell lung cancer), la forma più comune che rappresenta il 75-80% di tutti i tumori polmonari. Si sviluppa e diffonde più lentamente e si differenzia in tre sottotipi:
  • carcinoma a cellule squamose, rappresenta circa il 30% di tutti i casi di tumore polmonare, predilige i grandi bronchi, colpisce gli uomini e i soggetti anziani di entrambi i sessi. Può restare localizzato nella sede d’origine impiegando molto tempo prima di dare metastasi;
  • adenocarcinoma, costituisce il 40% circa di tutte le neoplasie polmonari, si sviluppa nelle zone periferiche del polmone coinvolgendo la pleura, il foglietto di rivestimento della parete toracica e dei polmoni. È più frequente tra le donne e i non fumatori. È in costante aumento ed è il più frequente. Cresce ed evolve in metastasi rapidamente, con interessamento di linfonodi locali e a distanza;
  • carcinoma a grandi cellule o anaplastico (poco differenziato), ha una frequenza di circa il 2%, con origine nelle zone periferiche. Al momento della diagnosi ha un volume discreto, per questo presenta un andamento peggiore rispetto agli altri due.

La quota restante è composta da altre morfologie non specificate.

Stadiazione di malattia

La valutazione della diffusione di un tumore polmonare si avvale per prima cosa della estensione della malattia. Il carcinoma a piccole cellule o microcitoma si distingue in: malattia limitata (torace mediastino linfonodi regionali) e malattia estesa (metastasi a distanza). Il carcinoma non a piccole cellule basa la stadiazione sul sistema TNM dove T sta per dimensione e rapporti con organi vicini, N sta per numero di linfonodi coinvolti, M per metastasi.

  • Stadio I: il tumore non è diffuso, è piuttosto piccolo e resecabile.
  • Stadio II: il tumore è diffuso a linfonodi e tessuti vicini. È operabile.
  • Stadio III: il tumore è diffuso al torace, ai linfonodi mediastinici o del collo. Non è operabile.
  • Stadio IV: presenti metastasi in diverse parti del corpo.

Prevenzione primaria

Non ci sono screening validati per il carcinoma polmonare. L’unica forma di prevenzione sicura è non iniziare a fumare o smettere prima possibile se si è fumatori. Molto discussa l’opportunità di effettuare la TAC nei soggetti fumatori; sono in corso studi su numeri molto grandi.

Diagnosi

Il tumore del polmone può crescere per molti anni senza provocare alcun sintomo; questo significa che nella maggior parte dei casi la diagnosi non viene eseguita in fase iniziale di malattia. Al momento non esistono ancora test di screening validati (sicuramente confermati) su larga scala, come quelli già in atto per le forme di tumore che colpiscono seno, utero e colon.

Di solito si arriva all’accertamento diagnostico attraverso controlli occasionali o perché il tumore, già esteso, inizia a manifestare sintomi.

Il primo esame è la radiografia toracica. Il percorso diagnostico prevede poi l’analisi dell’espettorato, la broncoscopia, la TAC con mezzo di contrasto, eventualmente una PET con mezzo di contrasto marcato con radioisotopo, una scintigrafia ossea e, se l’oncologo e il radiologo lo ritengono opportuno, una RMN cerebrale.

Identificare il tipo e il sottotipo di tumore è indispensabile per guidare il medico nella scelta tra le possibili opzioni terapeutiche.

I CEROTTI MEDICATI GOLD STANDARD NELLA CURA DEL DOLORE LOCALIZZATO

I CEROTTI MEDICATI GOLD STANDARD NELLA CURA DEL DOLORE LOCALIZZATO

Mal di schiena, dolori muscolari, artriti e artrosi sono alcune delle sintomatologie più frequenti che colpiscono oltre 20 milioni di italiani: un adulto su due. Un dolore localizzato per cui è spontaneo pensare a una soluzione che riesca ad agire proprio dove c’è il dolore.

“Il dolore, cronico o occasionale, rappresenta il principale motivo di consulto del medico di medicina generale, spiega Claudio Cricelli, Presidente SIMG, Società Italiana di Medicina Generale e delle Cure Primarie. Nel trattamento delle forme più comuni di dolore si cerca di evitare al massimo il ricorso ai trattamenti sistemici ove esista una valida alternativa come i cerotti antalgici antiinfiammatori. Questi farmaci sono da preferire al trattamento per bocca: sono di semplice impiego, ben tollerati, ben controllati e comodi. Gli anti-infiammatori non steroidei (FANS), come il diclofenac, sono farmaci ampiamente utilizzati nella pratica clinica e vengono prescritti in diverse patologie per il trattamento del dolore data la loro comprovata efficacia. I cerotti medicati a base di diclofenac sono in grado di risolvere tante situazioni in cui il dolore localizzato è trattabile con successo da questa opzione”.

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I farmaci per uso locale (topico), in particolare i cerotti medicati antidolore, con oltre 5 milioni di confezioni vendute nel 2014 in Italia, risultano essere la prima scelta di chi deve risolvere un problema di dolore localizzato. Scelta confermata anche da diverse linee guida internazionali che sostengono l’impiego di questi presidi, prima del ricorso ai farmaci per uso orale o agli oppioidi, come ad esempio:

Eular-European League Against Rheumathism e ACR-American College of Rheumatology), Nice (National Institute for Health and Clinical Excellence)

“La ricerca di una soluzione al dolore, spiega Maria Vittoria Muzio, farmacista e Consigliere Federfarma Milano, è il motivo più frequente di ricorso al consiglio in farmacia. Per il farmacista è fondamentale poter disporre di una vasta gamma di medicinali senza obbligo di prescrizione, che consenta di scegliere tra diversi principi attivi e tra diverse vie di somministrazione quella più adatta non soltanto al disturbo, ma anche alle caratteristiche della persona che, sempre più spesso, è trattata per altre patologie e, quindi, è particolarmente esposta al problema delle interazioni farmacologiche. In questo senso, la disponibilità di medicinali di grande efficacia come i FANS in una forma farmaceutica poco invasiva come il cerotto medicato dà la possibilità di affrontare con indubbia efficacia e sicurezza i disturbi articolari e muscolari che ogni giorno affliggono migliaia di persone con grande praticità e facilità di applicazione”.

3Il cerotto medicato contenente diclofenac epolamina (DIEP) assicura un’efficace azione antinfiammatoria e analgesica localizzata, con un lento e continuo rilascio del principio attivo nell’arco delle 12 ore. È possibile applicare fino a 2 cerotti al giorno per un periodo fino a 14 giorni. Il diclofenac è un farmaco dall’effetto antinfiammatorio, analgesico e antipiretico che rientra nella categoria degli antinfiammatori non steroidei (FANS) ed è una molecola largamente conosciuta e prescritta per le condizioni di dolore acuto e cronico. Questo farmaco è disponibile in diverse formulazioni iniettabili, orali e topiche. Diclofenac epolamina somministrato sotto forma di cerotto, grazie all’alta solubilità della molecola, assicura un’effettiva penetrazione nell’epidermide e un’azione a livello muscolare e della pelle. La molecola epolamina è un veicolo, senza attività farmacologica, utilizzato per aumentare la solubilità e quindi raggiungere gli strati più profondi del tessuto.

“La maggioranza dei pazienti che si rivolge a uno specialista ortopedico lamenta dolore in qualche parte del corpo. Dolore che può essere acuto e insorto in seguito ad un trauma, oppure cronico, che dura da tempo.

1Nel primo caso il trauma cosiddetto minore può causare un’infiammazione di elementi del nostro sistema muscolo-scheletrico nei diversi distretti – spiega Paolo Cherubino, Past President SIOT, Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia -. L’esempio più comune è l’infiammazione causata da un trauma tipo la distorsione, la cosiddetta storta ,riferita spesso alla caviglia, al ginocchio, ecc. Ma anche sollecitazioni muscolari in distrazione causano dolore spesso violento e di breve durata, da porre in diagnosi differenziale con la rottura del muscolo. Tra le forme croniche, la lombalgia e la tendinopatia della cuffia dei rotatori hanno un posto preminente come frequenza e come necessità di risolvere il problema il più rapidamente possibile. In questi e altri casi simili l’applicazione topica di un FANS è estremamente gradita perché non comporta la somministrazione per via orale o intramuscolare del farmaco, evitando così i ben noti effetti collaterali di tali vie di introduzione. I pazienti poi possono rinnovare da soli la medicazione, senza bisogno di ricorrere a un’infermiera o all’amico per l’iniezione intramuscolare e sono estremamente più sereni per ciò che riguarda gli effetti sull’apparato gastroenterico”.

L’INDAGINE A.M.R.E.R. E I BISOGNI DEI PAZIENTI REUMATICI

L’INDAGINE A.M.R.E.R. E I BISOGNI DEI PAZIENTI REUMATICI

Le malattie reumatiche rappresentano la prima causa di invalidità temporanea e la seconda di invalidità permanente: il 27% delle pensioni di invalidità è attribuibile a queste patologie. Ogni paziente non adeguatamente trattato perde in media 12 ore di lavoro settimanale, 216 euro per la ridotta efficienza e quattro pazienti su dieci sono costretti a cambiare o a rinunciare al lavoro. “Le malattie reumatiche sono in assoluto le più diffuse, ne soffre circa il 10% della popolazione generale, basti dire che su dieci pazienti presenti in un ambulatorio medico, almeno quattro lamentano un problema reumatologico – afferma il dottor Ignazio Olivieri, Direttore U.O.C. di Reumatologia dell’Azienda Ospedaliera San Carlo di Potenza, Presidente eletto della Società Italiana di Reumatologia (SIR) –. Sono patologie croniche, caratterizzate da dolore, rigidità, disabilità di vario grado fino all’invalidità”.

Per la prima volta in Italia, grazie a una rilevazione promossa da A.M.R.E.R. (Associazione Malati Reumatici Emilia Romagna) è stato verificato in modo univoco il peso numerico di queste malattie, misurato in base ai codici esenzione di 7 patologie reumatiche tra le più gravi e invalidanti. A ognuna delle sette patologie è attribuito uno specifico codice delle esenzioni ticket per le prestazioni indicate dai Livelli Essenziali di Assistenza (per prestazioni di diagnostica strumentale, di laboratorio e altre prestazioni specialistiche):

Artrite Reumatoide (codice 006),
Psoriasi (codice 045),
Lupus Eritematoso Sistemico (codice 028),
Malattia di Sjogren (codice 030),
Morbo di Paget (codice 037),
Sclerosi Sistemica Progressiva (codice 047),
Spondilite Anchilosante (codice 054).

La rilevazione condotta da A.M.R.E.R. disegna la mappa dei pazienti con malattie reumatiche nel nostro Paese in base all’età, al genere e al territorio di residenza. La maglia rosa per organizzazione dei servizi, presenza di centri specialistici e competenza dello specialista reumatologo spetta a Friuli Venezia Giulia (0,79% di esenti ticket), Veneto (0,78%), Lombardia (0,72%), seguite da Toscana (0,70%), Emilia Romagna, Puglia; meno virtuose, Lazio, Umbria, Marche, Basilicata, Val d’Aosta, Campania che vede bocciata Napoli (0,31%).

Il numero totale di esenzioni attive per le sette patologie censite è di 371.586, che è come dire tutti i residenti del Comune di Bologna o di Firenze. Un numero davvero significativo se si pensa che corrisponde a persone con una patologia cronica fortemente invalidante che non guarisce, ma che purtroppo continua a evolvere – spiega Daniele Conti, Responsabile Area progetti A.M.R.E.R. onlus –. Il report, inoltre, ha fatto emergere un trend costante di aumento delle esenzioni per patologie reumatiche: possiamo stimare che in futuro avremo oltre 40 mila esenzioni ticket in più all’anno in Italia”. Un’analisi dei dati complessivi fa emergere che il 41,6% (154.610 esenzioni ticket) delle esenzioni rilasciate è per Artrite Reumatoide (AR), seconda significativa patologia è la Psoriasi nelle sue varie forme con il 31,8% (118.245 esenzioni ticket), patologie di minore prevalenza numerica ma altrettanto severe come la Sclerosi Sistemica Progressiva e il Lupus Eritematoso Sistemico (LES), rappresentano globalmente il 12,8%.

A.M.R.E.R. è l’Associazione dei Malati Reumatici dell’Emilia Romagna. Si tratta di una realtà di supporto ai pazienti, presente dal 1979: nasce ed è tutt’ora un’Associazione di volontari con sede a Bologna, nel tempo ha acquisito il titolo di ONLUS, e conta oggi oltre 3.600 soci in Italia.

Guerrina Filippi, Presidente AMRER Onlus, ci parla dell’indagine A.M.R.E.R.

 

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A.M.R.E.R. si è fatta promotrice e ha realizzato a livello nazionale la prima indagine sulle esenzioni per patologie reumatiche. Com’è nata l’iniziativa e qual è la sua valenza? Quale valore aggiunto porterà al SSN sul piano sanitario ed economico con riguardo alle patologie reumatiche? 

Rappresentare il dato numerico delle malattie reumatiche è stata la prima esigenza che A.M.R.E.R. si è posta quando ci siamo trovati a confrontarci con l’Amministrazione Pubblica. Per fare proposte e richieste era necessario avere a disposizione uno scenario chiaro della situazione che palesasse il bisogno, i confini e il peso di cui A.M.R.E.R. si faceva portavoce. Da questa consapevolezza è iniziato un percorso direi quasi obbligato che nel 2006 ci ha portati a reperire dati esistenti tali da dimostrare la rilevanza numerica di queste patologie in ambito regionale.

Oggi questa indagine è l’evoluzione del lavoro avviato in Regione Emilia Romagna e trasferito a livello nazionale, ed ha il grande merito di far conoscere in maniera più adeguata il “pubblico” dei pazienti e i loro bisogni anche in termini di esigenze legate all’età, al sesso, all’attività lavorativa e alla presa in carico. I dati non rappresentano l’incidenza di malattia, ma il numero di esenzioni attive rilasciate da 150 aziende sanitarie, è probabile in tal senso che il dato complessivo ottenuto sia in realtà sottostimato, tuttavia una cosa è certa: il numero di pazienti esenti per patologia reumatica rilevato è quello sotto al quale non si scende, ossia rappresenta il numero minimo.

Sicuramente questo censimento di A.M.R.E.R. porterà valore aggiunto al Servizio Sanitario Nazionale: intanto una riorganizzazione socio-sanitaria strategica basata sul concetto di costruzione di Reti per la programmazione dei servizi di accesso alle cure, per adattare maggiormente il sistema delle cure ai bisogni dei pazienti, per migliorare l’utilizzo delle risorse complessivamente disponibili, consentendo alla fine un risparmio sia per le aziende sanitarie sia per il Servizio Sanitario Nazionale.

L’indagine di A.M.R.E.R. vuole dare risposte ai bisogni dei pazienti attraverso il riconoscimento della figura del reumatologo e una progressiva organizzazione di PDTA specifici che consentano alla fine un risparmio di risorse per le aziende sanitarie. Quale potrebbe essere in tal senso il ruolo svolto da Associazioni dei pazienti come la vostra nel partecipare alla realizzazione di reti assistenziali e/o percorsi diagnostico-terapeutici sul territorio e in Centri di riferimento specialistici?

La reumatologia sta vivendo a livello italiano un periodo piuttosto complesso legato alla contrazione delle risorse. In tale contesto diventa sempre più difficile trasmettere ai decisori l’articolato e indispensabile lavoro svolto dalla figura del reumatologo in termini di attività/malattie/ bisogni dei pazienti legati alla cronicità di queste patologie. Il rischio concreto potrebbe essere quello di vedere scomparire molte realtà assistenziali proprio perché non si conosce e né si riesce a rappresentare il bacino di bisogno che intercettano.

Il ruolo svolto da Associazioni dei pazienti come la nostra è determinante per contribuire a rafforzare l’attenzione sulle malattie reumatiche autoimmuni sia perché in aumento e rilevanti sotto il profilo socio-sanitario ed economico sia perché estremamente complesse e a motivo di questa complessità bisognose di approcci multidisciplinari specialistici. Siamo convinti che grazie all’associazionismo sia possibile promuovere un utilizzo più razionale e pertinente dei servizi da parte dell’amministrazione e dell’utenza stessa, migliorando la qualità dell’offerta, contenendo la spesa e ottimizzando i tempi di gestione dell’assistenza sanitaria. Attraverso una progressiva acquisizione di professionalità e autorevolezza le Associazioni devono entrare nei processi di produzione salute, consci del proprio ruolo di rappresentanti dei pazienti, non sostituendosi all’erogatore, come spesso accade, ma contribuendo ad accrescere la conoscenza dei bisogni dei pazienti tra gli amministratori pubblici e i politici. Solo con un’azione sinergica si potrà migliorare la qualità di vita delle persone malate nonché quella dei loro familiari.

La vostra Associazione e le altre dedicate ai pazienti reumatici, potrebbero avere un ruolo a livello nazionale nel promuovere il riconoscimento di linee guida per la gestione a tutto tondo del paziente reumatico?

A.M.R.E.R. ha maturato nel tempo un’esperienza che rappresenta, anche sotto il profilo professionale dei suoi volontari, una crescita importante. Questo grazie ad un proficuo lavoro di collaborazione e sinergia con gli amministratori pubblici. Siamo arrivati a comprenderne molti processi, molti limiti e tante potenzialità. Si sono raggiunti obiettivi significativi come linee guida, progetti di ricerca, formazione e PDTA.

È ora importante amplificare e trasferire le buone pratiche e il bagaglio esperienziale acquisito per metterlo in “rete” e proseguire con il processo di condivisione delle conoscenze, delle competenze, dei percorsi efficienti e delle progettualità per conseguire la crescita a livello nazionale. La complessità crescente delle attività e dei bisogni quando proiettiamo le singole esperienze a livello nazionale, ci vede già impegnati in un processo di progressivo coordinamento per superare i personalismi limitanti. Lavoriamo in questa direzione e rivolgiamo un invito ad unirsi alle nostre attività, alle tante realtà associative reumatologiche che sono attive sul territorio nazionale, per offrire un servizio di supporto e confronto all’amministratore pubblico nazionale in modo da migliorare concretamente la qualità della vita del paziente.

UN NUOVO SCENARIO SULL’EPATITE C

UN NUOVO SCENARIO SULL’EPATITE C

I virus dell’Epatite rappresentano una delle principali cause delle infezioni acute e croniche del fegato, costituendo un grave rischio per la salute globale. Nonostante l’estrema diffusione, ancora oggi la maggior parte delle persone affette non ne è a conoscenza, esponendosi così al rischio di incorrere in gravi malattie del fegato (come la cirrosi o forme tumorali), oltre a diventare, inconsapevolmente, artefici della sua diffusione.

L’OMS stima che 180 milioni di persone, circa il 2% della popolazione mondiale, siano cronicamente infettate con il virus dell’Epatite C e a rischio di sviluppare cirrosi epatica e/o cancro del fegato. Inoltre, ogni anno, 3-4 milioni di individui vengono infettati dal virus e tra le 300 e le 500 mila persone muoiono a causa di malattie epatiche correlate all’infezione.

In Europa il numero delle persone infette da HCV si aggira fra i 7,3 e gli 8,8 milioni. L’ultimo Rapporto dei Centri Europei per il Controllo delle malattie (Ecdc) – luglio 2014 – ha evidenziato un allarmante incremento dell’Epatite C in Europa, con un numero di casi doppio rispetto alla B.

L’Italia è il Paese europeo con la maggiore prevalenza di HCV. Gli esperti stimano che è infetto quasi il 3% della popolazione, circa 1,6 – 1,7 milioni di persone (la metà dei quali non sa di esserlo), di cui 330 mila hanno sviluppato una cirrosi epatica.

Ma cos’è precisamente l’epatite C? L’Epatite C è un’infiammazione del fegato causata da un virus della famiglia Flaviviridae appartenente al genere hepacavirus (HCV) che attacca l’organo, attraverso l’attivazione del sistema immunitario dell’ospite, provocando danni strutturali e funzionali anche molto gravi. L’infezione causa la morte delle cellule epatiche (necrosi epatica), che vengono sostituite da un nuovo tessuto cicatriziale che, a lungo andare, occupa tutta o quasi la componente sana del fegato, da cui deriva una grave compromissione delle sue attività, evolvendo come ultimo stadio alla cirrosi epatica.

La fase acuta dell’infezione del virus dell’Epatite C decorre quasi sempre in modo asintomatico, tanto che la patologia è definita un silent killer. L’infezione da HCV cronicizza nel 70-85% dei soggetti. Ciò significa che anche un’incidenza relativamente modesta dell’infezione contribuisce ad alimentare efficientemente il numero dei portatori cronici del virus.

Il virus HCV possiede un’estrema variabilità genomica che ha portato alla distinzione di 6 diversi genotipi entro i quali si identificano molteplici sottotipi.

ll virus dell’Epatite C è “a trasmissione ematica”, il che significa che le persone vengono infettate attraverso il contatto diretto con sangue infetto.

I principali fattori di rischio sono: trasfusioni di sangue ed emoderivati infetti, precedente o attuale uso di droghe per via endovenosa, rapporti sessuali a rischio, trattamenti estetici come piercing e tatuaggi eseguiti con strumenti non adeguatamente sterilizzati, contagio perinatale (in circa il 5% dei bambini nati da madri HCV-RNA positive), co-infezione epatiti croniche/HIV.

Attualmente la diagnosi di epatite C si basa sull’impiego di due esami del sangue: la ricerca degli anticorpi specifici contro l’HCV e l’individuazione delle particelle virali HCV-RNA (test qualitativo HCV-RNA sensibile dal 10° al 14° giorno dopo l’infezione). È inoltre possibile valutare in modo indiretto lo stato di infiammazione del fegato determinando i livelli delle transaminasi epatiche.

Il parametro essenziale, per definire lo stadio e la conseguente evoluzione della malattia, è rappresentato dalla entità di fibrosi e pertanto solo la biopsia e il successivo esame istologico permettono una stadiazione esatta della malattia e del danno epatico. L’unico svantaggio è che le biopsie epatiche possono essere eseguite in modo limitato (a parte casi particolari ogni 3-4 anni). Una volta accertata la presenza del virus e del danno epatico si possono eseguire ulteriori indagini volte ad individuare il genotipo dell’HCV e la carica virale grazie all’HCV-RNA quantitativo, benché essi sono poco utilizzabili in quanto né i livelli di viremia, né il genotipo virale hanno dimostrato convincenti correlazioni con l’evoluzione delle patologie.

Tuttavia gli esami del sangue condotti di routine non includono il test per l’HCV, pertanto la verifica sierologica deve essere richiesta esplicitamente dal medico curante. Per questo motivo la maggior parte delle persone affette da Epatite C asintomatica non sanno di avere la malattia.

FOTO CONVEGNO

Si è discusso di tutto questo a Roma al convegno “HCView, una finestra sulle politiche per l’epatite C” patrocinato dal Ministero della Salute.

Oggi esiste la possibilità concreta di eradicare il virus grazie alla disponibilità di una nuova classe di farmaci, gli antivirali diretti (DAA). “Stiamo assistendo a una rivoluzione epocale nell’area epatite C che si deve all’introduzione di farmaci antivirali innovativi in grado di migliorare il controllo dell’epatite C e di incrementare i tassi di cura dei pazienti passando dal 50% al 90% di guarigioni, cui si aggiunge un profilo di tollerabilita ottimale non confrontabile con le terapie precedenti grazie anche all’assenza dell’interferone nel regime terapeutico, responsabile dei pesanti effetti collaterali – dichiara Antonio Gasbarrini, Professore ordinario di Gastroenterologia, Università Cattolica del Sacro Cuore Roma -. In prospettiva, sarà possibile ridisegnare i contorni della gestione di questa grave malattia, però ad oggi assistiamo ancora a ritardi nell’implementazione di quegli strumenti programmatici che strutturano l’accesso alle terapie e garantiscono al paziente la corretta gestione. Si tratta di un discorso ampio che va dalle le risorse per accogliere i nuovi trattamenti, fino all’inserimento nei prontuari regionali e alla formazione del personale sanitario, nonché al vaglio di Linee Guida Nazionali”.