TUMORE AL SENO METASTATICO, UN NUOVO FARMACO E UNA CAMPAGNA CHE DÀ VOCE ALLE DONNE

TUMORE AL SENO METASTATICO, UN NUOVO FARMACO E UNA CAMPAGNA CHE DÀ VOCE ALLE DONNE

Il tumore al seno è il tumore più comune nelle donne con circa
1,7 milioni di nuovi casi diagnosticati ogni anno in tutto il mondo.
In Italia si presume siano circa 30 mila le donne con tumore al seno in forma avanzata o metastatica, caratterizzata dalla diffusione del tumore dal seno ad altre zone del corpo, come ossa, fegato, polmone o cervello. Circa il 5-10% dei 50 mila nuovi casi annui di tumore al seno si presenta metastatico alla diagnosi; ma circa il 30% delle donne con diagnosi iniziale di tumore al seno in stadio precoce potrà sviluppare un tumore al seno metastatico nella sua vita. Le terapie mirate di ultima generazione sono oggi in grado di bloccare o rallentare la progressione della malattia garantendo al contempo una buona qualità di vita.
Il tumore al seno metastatico è lo stadio più avanzato del tumore al seno. Si verifica quando il tumore si diffonde ad altre parti del corpo, come: polmoni, fegato, cervello, ossa.
Il professor Sabino De Placido, Direttore Oncologia Medica Università degli Studi di Napoli Federico II, ci aiuta a comprendere meglio di cosa si tratta e ci parla del primo nuovo farmaco per il trattamento di questa forma di tumore.

Qual è il profilo delle donne italiane che vivono con una diagnosi di tumore al seno metastatico?
Generalmente le donne con tumore mammario metastatico sono per il 90% in menopausa, hanno un’età mediana alla diagnosi di 63 anni (sebbene il numero di tumori in donne giovani ed in premenopausa sia in incremento) e nell’89% dei casi hanno un ottimo/discreto performance status all’inizio del percorso terapeutico.

Ci può illustrare cos’è e come si caratterizza il tumore al seno metastatico? Quali sono le principali differenze rispetto alla forma non metastatica?
Il tumore della mammella metastatico, a differenza della forma non metastatica, è un tumore che ha invaso i vasi sanguigni e/o linfatici ed ha raggiunto altri organi e tessuti, sviluppando nuove sedi di malattia a distanza macroscopicamente visibili. I meccanismi molecolari alla base del processo di metastatizzazione sono probabilmente da ricercare nella riprogrammazione del profilo di espressione genica di alcune cellule neoplastiche, che sviluppano un profilo cosiddetto mesenchimale più aggressivo. Da un punto di vista biologico queste cellule acquisiscono anche mutazioni che conferiscono resistenza o sensibilità a trattamenti antitumorali, che le rendono differenti rispetto al tumore primitivo. Ad esempio le mutazioni del recettore degli estrogeni, che conferiscono resistenza agli inibitori dell’aromatasi, sono alquanto rare (<2%) nei tumori mammari iniziali e presenti al, contrario, nel 25-30% dei tumori metastatici trattati con inibitori dell’aromatasi. A differenza delle forme non metastatiche, la guarigione è, purtroppo, più difficilmente perseguibile con gli attuali trattamenti a disposizione. Tuttavia, numerosi farmaci innovativi approvati negli ultimi anni, tra cui il palbociclib per le forme ormonopositive, stanno progressivamente rendendo il tumore mammario metastatico una malattia “cronica”, con la quale le donne affette convivono sempre più a lungo e con una discreta qualità di vita.

Quali sono i fattori di rischio e l’evoluzione di questo tumore? Che ruolo giocano le caratteristiche biologiche e molecolari?
I principali fattori di rischio per il tumore della mammella sono:
1. Fattori riproduttivi: una lunga durata del periodo fertile, con un menarca precoce e una menopausa tardiva e quindi una più lunga esposizione dell’epitelio ghiandolare agli stimoli proliferativi degli estrogeni ovarici; la nulliparità, una prima gravidanza a termine dopo i 30 anni, il mancato allattamento al seno.
2. Fattori ormonali: terapia ormonale sostitutiva durante la menopausa, specie se basata su estroprogestinici sintetici ad attività androgenica; aumentato rischio nelle donne che assumono contraccettivi orali.
3. Fattori dietetico-metabolici: l’obesità, l’elevato consumo di alcool e di grassi animali e il basso consumo di fibre vegetali.
4. Pregressa RT toracica.
5. Precedenti displasie o neoplasie mammarie.
6. Familiarità ed ereditarietà (prevalentemente legata a mutazioni di BRCA 1/2).

Le caratteristiche biologiche e molecolari dei tumori mammari hanno assunto un ruolo fondamentale. In particolare, è ormai riconosciuto da tempo come i tumori mammari siano classificabili in sottotipi molecolari con profili di espressione genica e relativi correlati immunoistochimici ben definiti.
Questi differenti sottotipi hanno un comportamento biologico differente che si riflette sulla prognosi e sulla responsività ai trattamenti sistemici. Infatti, la sopravvivenza mediana globale nella malattia metastatica è pari a circa 44 mesi nelle forme HER2-positive, a 30-45 mesi nelle forme con recettori ormonali positivi e circa 10-13 mesi per le forme triplo negative.

Il carcinoma al seno metastatico HR+/HER2- rappresenta circa il 60% di tutti i casi di cancro al seno metastatico. Oggi è disponibile il primo nuovo farmaco per il trattamento di questa forma di tumore. Ci spiega le caratteristiche e quale innovazione rappresenta palbociclib nel trattamento del carcinoma al seno metastatico HR+/HER2?
Il palbociclib è un inibitore delle chinasi ciclina-dipendenti 4 e 6 (CDK 4/6). Queste sono molecole fondamentali per la progressione del ciclo cellulare e dunque per la proliferazione cellulare. Infatti le CDK 4/6 e la ciclina D determinano una iperfosforilazione di pRb che consente il rilascio di fattori trascrizionali responsabili della progressione dalla fase G1 ad S, in definitiva promuovono la transizione delle cellule tumorali da una fase non proliferativa ad una fase proliferativa. Studi in vitro su linee cellulari di tumori mammari ormonopositivi hanno mostrato come il palbociclib, soprattutto se in associazione a trattamenti antiormonali, sia in grado di bloccare le cellule in fase G1 e di arrestarne la proliferazione. I brillanti risultati di questi studi preclinici hanno promosso studi clinici sulle pazienti.
In prima linea di trattamento, in malattia metastatica con recettore ormonale positivo ed HER2 negativo, l’associazione di palbocilib e letrozolo (inibitore di aromatasi) ha significativamente bloccato la progressione tumorale con risultati decisamente migliori rispetto al solo letrozolo. Infatti, lo studio di fase 3 PALOMA-2 ha mostrato in questo gruppo di pazienti un beneficio per l’associazione di palbociclib e letrozolo rispetto al solo letrozolo di circa 10 mesi [24.8 mesi (95% CI, 22.1-NR) vs 14.5 (95% CI, 12.9-17.1) HR: 0.58; 95% CI, 0.46 to 0.72; P<0.001].
Inoltre, anche in pazienti in progressione di malattia dopo un precedente trattamento ormonale, sia in premenopausa che postmenopausa, l’associazione di palbociclib e fulvestrant (farmaco in grado di degradare il recettore per estrogeno) ha mostrato maggiore efficacia nel bloccare la progressione metastatica del tumore ed una migliore qualità di vita per le pazienti rispetto alla terapia convenzionale con il solo fulvestrant. Infatti, lo studio di fase 3 PALOMA-3, che ha testato l’associazione palbociclib/fulvestrant vs fulvestrant più placebo in pazienti già pretrattate con terapia endocrina, ha anch’esso dimostrato in questo gruppo di pazienti un beneficio significativo con un quasi raddoppio della PFS mediana (9·5 mesi (95% CI 9·2–11·0) vs 4·6 mesi (3·5–5·6); HR 0·46, 95% CI 0·36–0·59, p<0·0001).
Risultati positivi di così alta rilevanza clinica non se ne vedevano da tempo nel tumore mammario metastatico HR+/HER2- ed hanno rapidamente condotto all’approvazione di queste associazioni terapeutiche in USA da parte dell’FDA. Non molto tempo dopo, l’approvazione è stata ottenuta anche in Europa e finalmente da oggi questa molecola potrà essere pienamente utilizzata anche in Italia in regime di rimborsabilità, consentendo alle donne affette da tumore ormonopositivo metastatico di beneficiare di un trattamento indubbiamente sicuro e molto efficace.

Migliaia di donne con tumore al seno metastatico hanno nuovamente l’opportunità di far ascoltare la loro voce con “Voltati. Guarda. Ascolta. Le donne con tumore al seno metastatico” la campagna nazionale di sensibilizzazione che nel corso del 2017 ha raccolto e fatto conoscere attraverso il web, la radio, i canali social ed eventi di piazza le storie delle donne che ogni giorno combattono con grande coraggio contro questa malattia, portando in primo piano i loro sentimenti, le loro emozioni e le loro speranze.
Fino al 31 marzo sono state raccolte storie di pazienti sul sito www.voltatiguardaascolta.it

UN COLLIRIO PER PROTEGGERE GLI OCCHI DAL SOLE E DA DANNOSE FONTI LUMINOSE

UN COLLIRIO PER PROTEGGERE GLI OCCHI DAL SOLE E DA DANNOSE FONTI LUMINOSE

È nato un nuovo collirio in grado di proteggere la retina dai raggi UV-A e dalla luce blu, sempre più presente nella vita di tutti i giorni. Lampadine a led, schermi di smartphone, computer, tablet, televisori fanno parte ormai della nostra vita al pari di oggetti considerati da sempre indispensabili. “E la luce blu è un fattore di rischio ormai identificato per l’insorgenza della degenerazione maculare, malattia multifattoriale, la cui eziopatogenesi è da ricondurre, oltre che alla luce blu, anche a diverse condizioni tra cui l’ipertensione arteriosa, l’ipermetropia, il diabete e l’ipercolesterolemia – precisa Matteo Piovella, presidente della SOI, Società Oftalmologica Italiana. Se si vuole quindi ridurre al minimo il rischio occorre intervenire su tutti i fattori eliminabili. Per filtrare la radiazione luminosa dannosa la prima opzione è quella d’indossare un paio di occhiali da sole. Ma ora si è resa disponibile anche una nuova opzione per schermare i raggi UV-A e la luce blu in forma di collirio”. Una prodotto innovativo che permettere ai suoi componenti di penetrare nello stroma corneale e di rimanervi a lungo formando una vera e propria lente filtrante. Il resto lo fa la miscela di sostanze costituita da Vit B2 (riboflavina), atta ad assorbire la luce dannosa, e da sostanze quali la Vit E TPGE e il MSM (metilsulfulfonilmetano) ad alta efficienza antiossidante, formulazione che dati sperimentali hanno rivelato essere la sola a proteggere efficacemente dal danno fotossidativo (esperienze effettuate su formulazioni contenenti uno o due dei componenti sopra riportati, hanno dato esito negativo). Un altro aspetto di pari importanza è la durata che tale protezione può avere. Tale effetto dipende dal consumo dei principi attivi che si sono accumulati nello stroma corneale ed è inversamente proporzionale all’entità dell’insulto luminoso subito. Prendendo ad esempio una condizione di luce naturale di entità media UVI 5 (UVI: indice ultravioletto o indice UV è una misura standard internazionale della forza delle radiazioni ultraviolette (UV) che producono le radiazioni solari in un particolare luogo e momento), a queste condizioni la durata della protezione si attesta intorno alle 4 ore.

Facendo una valutazione delle condizioni medie di vita normali, possiamo prendere come riferimento standard proprio UVI 5 (approssimazione per eccesso); a questo valore di UVI possiamo affermare, considerando la durata della protezione sopra riportata, che  una efficace protezione la si ottiene con un’istillazione di 1 o 2 gocce di collirio al mattino ed una ad ora di pranzo (ore 9/ore13). Ciò non toglie che in condizioni più stressanti la posologia possa essere modulata a seconda dell’ambiente in cui ci si trova: neve, spiaggia, barca a vela, collina o altro.

IL CIBO NELLA PREVENZIONE E CURA DELLE PATOLOGIE ONCOLOGICHE

IL CIBO NELLA PREVENZIONE E CURA DELLE PATOLOGIE ONCOLOGICHE

Sì al pesce che abbassa i livelli di colesterolo e i trigliceridi. Sì a vegetali, frutta e verdura ma seguendo la stagionalità. Sì ai legumi che tengono bassa la glicemia e hanno un alto contenuto di fibre. Sì ai cereali integrali: farro, riso, miglio, grano saraceno. Legumi e cereali insieme, poi, danno un senso di sazietà e riducono gli zuccheri. Sì a tè verde, zenzero, bacche di Goji. Sì a curcuma e latte d’oro fortemente antinfiammatori.
No a zuccheri, farine raffinate, bevande zuccherate.

Le strategie per una dieta più sana sono:

  1. Mangiare meno
  2. Preferire cibi che innalzano lentamente la glicemia
  3. Consumare grassi con moderazione, migliorando il rapporto saturi/polinsaturi
  4. Diminuire il consumo di cibo animale
  5. Incentivare il consumo (alicamenti) di cereali integrali, verdure/frutta, legumi, e di piccole quantità di cibi fermentati. Limitare le carni rosse, evitare le carni conservate e l’alcol.

Questi alcuni dei preziosi consigli diffusi al convegno “A tavola per prevenire, a tavola per guarire. Il cibo nella prevenzione e cura delle patologie oncologiche”. Incontro che ha messo a confronto alcuni tra i più autorevoli Istituti di Ricerca e Cura milanesi che lavorano sul tema dell’alimentazione applicata all’oncologia. I ricercatori dell’IRCCS Policlinico San Donato, dell’IRCCS Ospedale San Raffaele, dell’Istituto Nazionale dei Tumori e dell’Istituto Europeo di Oncologia, affiancati da noti chef, hanno deciso perciò di fare chiarezza e guidare il pubblico nel mondo dell’alimentazione sana e della prevenzione oncologica, senza perdere di vista il gusto. L’incontro è organizzato da Salute allo Specchio Onlus, associazione no profit attiva all’IRCCS Ospedale San Raffaele che supporta le pazienti in cura per patologie oncologiche, e da Casa dei Diritti del Comune di Milano.
“In ambito oncologico la letteratura scientifica ha mostrato come una dieta sana e varia sia in grado di prevenire l’insorgenza dei tumori, nonché di influire sul controllo della crescita tumorale. Inoltre negli ultimi anni è stata confermata anche l’importanza del controllo del peso corporeo per le persone con una storia di patologia oncologica”, spiega Giorgia Mangili,responsabile dell’Unità di Ginecologia oncologica dell’IRCCS Ospedale San Raffaele, nonché presidente di Salute allo Specchio.
Un regime dietetico equilibrato, oltre a fornire un apporto di nutrienti necessari a soddisfare i fabbisogni dell’organismo consente anche di introdurre elementi che svolgono una funzione preventiva e protettiva nei confronti di determinate condizioni patologiche.
Mangiare troppo e in maniera non appropriata, infatti, può causare sovrappeso, ipercolesterolemia, ipertensione arteriosa, diabete e, quindi, aumentare il rischio di varie malattie.

Dove troviamo queste sostanze fitochimiche?

  • Allylsulfides/organosulfurs: aglio, cipolle, porri
  • Saponins: aglio, cipolle, liquerizia, legumi
  • Carotenoids: (e.g., lycopene) vegetali e frutta di colore giallo/rosso/arancio
  • Monoterpenes: arance, limoni, pompelmi
  • Capsaicin: peperoncino
  • Lignans: semi di lino, frutti di bosco, cereali integrali
  • Indoles: crucifere (broccoli, cavoli, kale)
  • Isothiocyanates: crucifere, specialmente i broccoli
  • Phytosterols:soia, altri legumi, zucchini e altre verdure e frutta
  • Flavonoids: agrumi, cipolle, mele, uva, vino rosso, te, cioccolato, pomodori
  • Isoflavones: soia, altri legumi
  • Catechins: tè
  • Ellagic acid: fragole, lamponi, uva, mele, banane, noci
  • Anthocyanosides: piante rosse, blu e viola (mirtilli, melanzane)
  • Fructooligosaccharides: cipolle, banane, arance (piccole quantità)
  • Resveratrol: uva, arachidi, vino rosso

I risultati del Fondo Mondiale per la Ricerca sul Cancro (WCRF) (2007 &Update) rivelano che:
L’obesità è emersa come fattore di rischio convincente per mammella (post-menopausa), colon, fegato, esofago, prostata, pancreas, endometrio e rene.
L’attività fisica è emersa come fattore di protezione convincente per colon e probabile per mammella e endometrio.
L’alcol è emerso come fattore di rischio convincente per mammella, colon, esofago, stomaco, prime vie respiratorie e probabile per i tumori del fegato.
Il consumo di alimenti ricchi in fibre e calcio è un fattore di protezione probabile per i tumori dell’intestino.
Il consumo di carni rosse processate è un fattore di rischio convincente per i tumori dell’intestino. La carne rossa è un fattore di rischio probabile per gli stessi tumori.

WCRF 2007 &update. Istruzioni nutrizionali per la prevenzione del cancro:

  1. Mantenersi snelli per tutta la vita.
  2. Praticare quotidianamente esercizio fisico
  3. Limitare cibi ad alta densità calorica ed evitare bevande zuccherate
  4. Basare l’alimentazione quotidiana prevalentemente su cibi di provenienza vegetale con un’ampia varietà di cereali non raffinati, legumi, verdure e frutta
  5. Limitare le carni rosse ed evitare le carni conservate
  6. Limitare le bevande alcoliche
  7. Limitare il sale e i cibi conservati sotto sale, ed evitare cereali e legumi conservati in ambienti umidi
  8. Assumere i nutrienti necessari dai cibi, non da integratori
  9. Allattare al seno
  10. Non fumare

“Un’alimentazione sana, associata a un’adeguata attività fisica e al controllo di alcuni fattori di rischio (ad esempio fumo e alcol), costituisce uno strumento fondamentale nella prevenzione e gestione di numerose patologie. Un regime dietetico equilibrato, oltre a fornire un apporto di nutrienti necessari a soddisfare i fabbisogni dell’organismo, consente anche di introdurre elementi che svolgono una funzione preventiva e protettiva nei confronti di determinate condizioni patologiche, tra cui i tumori. Mangiare troppo e in maniera non appropriata, infatti, può causare sovrappeso, ipercolesterolemia, ipertensione arteriosa, diabete e, quindi, aumentare il rischio di varie malattie”, afferma Valentina Di Mattei, psicologa e ricercatrice dell’Università Vita-Salute San Raffaele e vice presidente di Salute allo Specchio.

A completare il quadro, l’intervento di chef particolarmente attenti a coniugare salute e gusto in cucina. Si tratta di: Giovanni Allegro di Cascina Rosa, Franco Cadei dell’Acanto-Hotel Principe di Savoia e Pietro Leeman del ristorante Joia, unico ristorante vegano-vegetariano in Italia con una stella Michelin. Gli chef dichiarano: “Gli studi recenti evidenziano sempre più il ruolo chiave del cibo nell’influenzare a lungo termine il nostro metabolismo e la nostra salute. Il cibo che scegliamo e il modo in cui lo cuciniamo influisce sulla quantità di molecole protettive a disposizione del nostro organismo e sulla capacità di sviluppare e rinforzare il nostro microbiota. La cucina buona e sana è una cucina che mira a preparare piatti gustosi ed è attenta all’equilibrio dei componenti, alla loro varietà e al contesto di in cui verrà realizzata”.

IL CONGRESSO NAZIONALE AME ASSOCIAZIONE MEDICI ENDOCRINOLOGI

IL CONGRESSO NAZIONALE AME ASSOCIAZIONE MEDICI ENDOCRINOLOGI

“Gli specialisti endocrinologi, occupandosi di diabete, malattie della tiroide, osteoporosi, patologie andrologiche e del metabolismo, oltre al maggior numero di malattie rare, sono responsabili della salute di milioni di italiani – spiega Vincenzo Toscano, Presidente AME Professore Ordinario di Endocrinologia alla Università Sapienza Roma -. Si tratta di malattie generalmente a carattere cronico per le quali non si riesce però a soddisfare al 100%, nei tempi stabiliti, le richieste di visita o di altre prestazioni correlate alle patologie stesse. Lunghe liste d’attesa: si calcola infatti che sono 84 i giorni d’attesa nel Lazio per una visita differibile, con tempo massimo di attesa previsto di 30 giorni, 67 a Caserta, 57 a Torino all’Ospedale Mauriziano, e 35 in Puglia, solo per citare alcuni casi. Le prestazioni endocrinologiche si collocano tra le maglie nere, con un terzo posto, dopo le liste d’attesa per prestazioni cardiologiche e di chirurgia vascolare. L’assistenza endocrinologica omnicomprensiva, oltre alle prime visite per le quali sono ben codificate le tempistiche di erogazione, si fa carico dei controlli che in molti casi potrebbero essere gestiti dal medico di medicina generale, che dovrebbe diventare la figura di riferimento per la gestione delle cronicità in rapporto a un piano specifico che in tutta Italia sta trovando applicazione”.

In particolare sono le malattie della tiroide e il diabete ad affollare i reparti. “I disturbi funzionali della tiroide sono patologie ad elevata prevalenza, ne è colpito il 5-7% della popolazione femminile; è facile comprendere come la condivisione di linee guida che evitino il ricorso ad esami superflui nei pazienti affetti da queste patologie possa avere un impatto favorevole sul contenimento della spesa sanitaria”, afferma Andrea Frasoldati, Servizio di Endocrinologia-Arcispedale S. Maria Nuova-Reggio Emilia.

“Secondo le rilevazioni Health Search, piattaforma di ricerca di SIMG, le malattie della tiroide sono uno dei più frequenti motivi di visita dell’ambulatorio del medico di famiglia insieme al diabete con una media di circa 7 visite/anno per paziente per tale patologia – dichiara Claudio Cricelli, Presidente SIMG, Società Italiana di Medicina Generale e delle Cure Primarie -. Poter studiare insieme percorsi assistenziali articolati che permettano una presa in carico del paziente con un percorso di cura definito in termini di controlli, sia ambulatoriali che diagnostici, nei diversi set assistenziali dal territorio all’ospedale per acuti diventa essenziale. Il corretto approccio di presa in carico deve essere il presupposto per l’appropriatezza prescrittiva”.

“Sono 4-5 milioni le persone colpite da osteoporosi, patologia severa ma scarsamente considerata come è testimoniato dal 60% di abbandono della terapia nei primi tre anni di cura – precisa Fabio Vescini, Azienda Ospedaliero-Universitaria Santa Maria della Misericordia di Udine. Il rischio osteoporosi è sottovalutato anche nelle Breast e Prostate Unit dove non è presente la figura dell’endocrinologo anche se è ormai noto il legame tra l’adozione di terapie oncologiche basate sulla deprivazione ormonale e l’impatto sulla salute dell’osso”.

Assistere con appropriatezza e portare benefici alle persone con malattie endocrinologiche favorendo la qualità di vita nel lavoro e nella vita sociale, anche con l’impiego di innovazioni tecnologiche, sono gli obiettivi di AME, Associazione Medici Endocrinologi. Di questi temi si è discusso il 9 novembre nel Congresso Nazionale AME, a Roma. “AME vuole essere propositiva anche con la promozione di progetti che vadano a utilizzare nuove tecnologie di comunicazione fra ospedale e territorio – afferma il Presidente Vincenzo Toscano – . Per fare questo però abbiamo bisogno dei giovani nati in epoca informatica e di qui l’X-FACTOR per scoprire i giovani endocrinologi più talentuosi che si dedichino a queste nuove modalità di comunicazione e entrino a far parte del Gruppo G-AME, costituito da endocrinologi under 40 e con la passione per digitale e nuove tecnologie che hanno voglia di mettersi in gioco e raccogliere la sfida che la tecnologia dei nostri tempi mette a disposizione”.

8 SCATTI D’AUTORE CONTRO IL LINFOMA

8 SCATTI D’AUTORE CONTRO IL LINFOMA

Il tempo è un bene prezioso ed è diventato l’immagine nella campagna “Non bruciare il tempo, mettilo a fuoco – Uno scatto contro il linfoma”, che ha coinvolto 60 Centri ematologici italiani e ha così raccolto oltre 250 pensieri di pazienti, famigliari, medici che vivono da vicino l’esperienza di un tumore del sangue. Gli scatti realizzati dall’Istituto Italiano di Fotografia sono stati esposti nella Galleria Alberto Sordi di Roma e le più belle frasi, e foto amatoriali, abbelliranno le sale dei Centri ematologici partecipanti

Otto pensieri sul valore del tempo, su tutto quello che un tumore del sangue può sottrarre alla propria quotidianità. Otto pensieri trasformati in 8 scatti d’autore contro il linfoma.

Che cosa fare con tre ore di tempo in più? A Genova c’è Carlo, che vorrebbe prendere del pesce fresco al mercato Orientale e preparare una cena alla moglie. Intanto qualche chilometro più a Sud, a Taranto, Elisabetta si dedicherebbe volentieri alla sua passione più dolce, la cake design. C’è Giuseppe che ad Avezzano (L’Aquila) passerebbe ogni secondo insieme a suo figlio, mentre ad Arezzo Paolo vorrebbe solo sedersi a tavola con i suoi nipotini. C’è poi Francesco di Santa Venerina (Catania), che ringrazia in rima i medici, ripromettendosi di non sprecare più il tempo guadagnato, mentre a Vimodrone (Milano) Gianandrea vuole “semplicemente vivere” e non lasciarsi sfuggire la possibilità di ricevere e donare un’emozione. Infine, a Messina, Andrea vorrebbe impedire al tempo di “fare tardi troppo presto” e Rebecca a Roma regalerebbe il tempo in più a chi di tempo ne ha avuto troppo poco.

Il legame tra i tumori del sangue e il tempo è molto stretto. Ogni anno i linfomi colpiscono più di 16 mila persone solo in Italia – Giovanni Pizzolo, Professore di Ematologia, Università di Verona, Vicepresidente della Società Italiana di Ematologia -. Sono tumori del sangue che coinvolgono principalmente i tessuti linfatici, in particolare i linfonodi, e sottraggono anni di vita di qualità ai pazienti, soprattutto a quelli più fragili come gli anziani. I linfomi costringono infatti le persone a trascorrere ore in ospedale per le terapie, ore che di fatto sono rubate ad altre attività più utili o semplicemente più piacevoli. Proprio perché il progresso terapeutico ha permesso, grazie all’impiego dei cosiddetti farmaci intelligenti che colpiscono selettivamente le cellule malate, di raggiungere punte di guarigione dell’80%, credo sia un dovere ricorrere, quando possibile, alle nuove somministrazioni più veloci e meno invasive. È un passaggio necessario per garantire la qualità di vita dei pazienti e anche per decongestionare le strutture ospedaliere, permettendo così di trattare un numero maggiore di pazienti e di abbattere le liste d’attesa”.

Ma cos’è il linfoma? È un tipo di tumore che si può sviluppare quando si verifica un errore nella produzione dei linfociti, un tipo di globuli bianchi che svolge un ruolo molto importante nel sistema immunitario. Si sviluppa così una cellula anomala, che diventa tumorale a causa di una velocissima e infinita replicazione. Queste cellule perdono la capacità di andare incontro a “morte programmata” (apoptosi), così possono accumularsi nei linfonodi, dando origine a tumori e provocando l’ingrossamento dei linfonodi.

Come i linfociti normali, anche quelli maligni possono svilupparsi in diverse parti del corpo, ad esempio sangue, linfonodi, milza, midollo osseo, o altri organi.

Esistono due tipi di tumore del sistema linfatico:

linfoma di Hodgkin (o Morbo di Hodgkin, dal nome del medico che per primo lo individuò nel 1832), caratterizzato dalla presenza di un particolare tipo di cellule tumorali, le cosiddette cellule di Reed Sternberg, non rilevabili nelle altre forme di linfoma;

linfoma non-Hodgkin (LNH), un gruppo di tumori (se ne contano oltre 30) che colpiscono il sistema linfatico.

 

I FATTORI DI RISCHIO

I fattori di rischio sono conosciuti solo in parte. Tra quelli non modificabili ci sono l’età e il sesso: il linfoma è infatti più comune tra gli adulti, in particolare dopo i 65 anni, e gli uomini sono in genere più a rischio delle donne.

Il rischio di linfoma aumenta anche con l’esposizione a radiazioni (ad esempio per trattamenti medici precedenti) o a certe sostanze chimiche come erbicidi e insetticidi e in tutti i casi in cui il sistema immunitario non funziona al meglio (ad esempio infezione da HIV, AIDS, malattie autoimmuni, terapie con farmaci antirigetto dopo un trapianto).

Non è possibile prevenire l’insorgenza dei linfomi, se non evitando l’esposizione ai pochi fattori di rischio noti (HIV, sostanze chimiche, radiazioni) e in generale ai fattori di rischio comuni a diversi i tipi di cancro (come per esempio obesità e sovrappeso).

 

 

I SINTOMI

La sintomatologia dei linfomi è molto variabile: a volte sono asintomatici, a volte compaiono con sintomi molto generici, come febbre, sudorazione intensa (soprattutto notturna), dimagrimento, spossatezza e prurito persistente in tutto il corpo.

Molto spesso il linfoma si presenta con un ingrossamento dei linfonodi in diverse sedi (collo, inguine etc.), ma nella maggior parte dei casi tale ingrandimento deriva da un’infezione comune e non è legato alla presenza di un linfoma.

Non esistono test per diagnosticare precocemente il linfoma non-Hodgkin e la biopsia sul linfonodo è l’unico metodo che consente una diagnosi accurata del linfoma. Il linfonodo deve essere prelevato per intero per consentire l’analisi di tutta la struttura ghiandolare e per definire nel modo più preciso il tipo istologico (istotipo) del linfoma ovvero la “carta d’identità del tumore”. Dal tipo di linfoma deriva l’aggressività clinica della malattia e, di conseguenza, la terapia.

Nei casi in cui i linfonodi sono presenti esclusivamente in una sede profonda, come l’addome e il torace, per formulare una diagnosi è necessario un intervento chirurgico in sede addominale (laparotomia o laparoscopia) o toracica (toracotomia o broncoscopia o mediastinoscopia).

Una volta individuato il tipo di linfoma è opportuno conoscerne la sua diffusione. Può essere infatti colpita una singola sede linfonodale oppure più sedi. Mediante una serie di accertamenti diagnostici di laboratorio (esami del sangue), radiologici (TAC, PET, ecografia, esami radiologici tradizionali) e, ove necessario, endoscopici è possibile definire la diffusione della malattia e classificarla in stadi.

 

IL TRATTAMENTO

La scelta del trattamento più adatto per il linfoma dipende da diversi fattori come, ad esempio, lo stadio e il tipo di malattia, l’età del paziente e le sue condizioni di salute generali. Generalmente la terapia è multidisciplinare, si avvale della collaborazione di diversi specialisti e può prevedere l’utilizzo di diversi trattamenti in combinazione.

Le principali linee d’azione, che possono essere seguite singolarmente o in combinazione l’una con l’altra, sono quattro.

Watch and Wait (“Osserva e Aspetta”) – In questa fase del linfoma, in assenza di sintomatologia sistemica e di malattia in fase di progressione, non s’interviene con i farmaci. Durante tale periodo, i pazienti si sottopongono a regolari visite mediche specialistiche e ad accertamenti periodici (esami del sangue o radiologici). Vengono inoltre informati su quali sintomi debbano essere immediatamente comunicati al medico in quanto richiedono l’inizio di un approccio terapeutico. L’approccio “Watch and Wait” si applica solo a particolari tipi di linfoma indolente.

Radioterapia – Consiste nell’uso di raggi X ad alta energia nell’area dove sono localizzate le cellule tumorali allo scopo di distruggerle e ridurre le dimensioni del tumore. Attualmente viene impiegata solo in associazione alla chemioterapia, come terapia di consolidamento.

Chemioterapia – I farmaci chemioterapici distruggono le cellule tumorali, anche quelle normali, interferendo nella loro attività di replicazione. La somministrazione può essere per via endovenosa oppure orale. Alcuni farmaci chemioterapici sono utilizzati singolarmente, ma solitamente viene adottata un’associazione di più farmaci.

Anticorpi monoclonali – In questi ultimi anni sono stati messi a punto nuovi schemi terapeutici particolarmente efficaci, che consistono nell’associazione della chemioterapia con un anticorpo monoclonale che è in grado di “sensibilizzare” le cellule tumorali all’azione della chemioterapia, aumentandone l’effetto. Questi anticorpi monoclonali sono proteine frutto dell’ingegneria genetica che riconoscono e si legano a un target specifico detto “antigene”, una proteina sulla superficie della cellula di linfoma. Dopo essersi legato al bersaglio è in grado di uccidere la cellula tumorale reclutando il sistema immunitario dell’individuo stesso. Gli anticorpi monoclonali vengono usati come “proiettili intelligenti” per colpire le cellule tumorali, senza distruggere quelle sane dell’organismo (a differenza della chemioterapia). Grazie alla ricerca scientifica oggi gli anticorpi monoclonali sono disponibili anche in formulazione sottocutanea, come nel caso di Rituximab, e ciò richiede, a parità di efficacia, un tempo di somministrazione di pochi minuti.

L’ARTRITE REUMATOIDE E LA FORMA PRECOCE E AGGRESSIVA

L’ARTRITE REUMATOIDE E LA FORMA PRECOCE E AGGRESSIVA

L’artrite reumatoide colpisce 1 persona ogni 200, oltre 300 mila soggetti in Italia, per il 75% dei casi di sesso femminile e nel pieno della vita attiva.

“Esiste una forma di artrite reumatoide più aggressiva e a rapida evoluzione, sottovalutata, nonostante i numeri, ma che peggiora seriamente la qualità di vita dei pazienti. Chi ne soffre paga un prezzo altissimo per disabilità e impatto sulla vita di tutti i giorni”. È questo il messaggio lanciato a Milano durante l’incontro Artrite Reumatoide: una malattia dai mille volti. Dalla gestione della cronicità alla lotta alla forma precoce e aggressiva.

L’evento si è svolto alla presenza delle principali Associazioni di persone affette da malattie reumatiche: ANMAR (Associazione Nazionale Malati Reumatici), APMAR (Associazione Persone con Malattie Reumatiche e Rare), AMRER (Associazione Malati Reumatici Emilia Romagna) ed è stato l’occasione per raccontare cosa vuol dire convivere con una malattia subdola e dal decorso erosivo rapido e invalidante, come cambia la qualità dei rapporti sociali e professionali e quali sono le maggiori criticità assistenziali per i pazienti.

In questo contesto, le Associazioni di pazienti giocano un ruolo determinante per far sì che i bisogni dei malati reumatici, ad oggi penalizzati rispetto a coloro che sono affetti da altre patologie ad alto impatto socio-sanitario, vengano sempre di più messi al centro della programmazione sanitaria. In quest’ottica, ANMAR, APMAR e AMRER hanno intrapreso un percorso di collaborazione per essere più efficaci nel dialogo con le Istituzioni, auspicando un maggiore coinvolgimento in fase decisionale, in quanto soggetti competenti e forti dell’esperienza di chi vive la malattia e opera sul territorio. Diagnosi più tempestive, trattamenti personalizzati a seconda delle forme di malattia e accesso alle terapie più ampio ed omogeneo sul territorio nazionale sono al centro delle istanze portate avanti dalle Associazioni.

“Bisogna puntare sulla medicina personalizzata e garantire l’accesso a quei farmaci che possono dare un reale beneficio ai pazienti che ne hanno bisogno – precisa Luigi Sinigaglia, Direttore S.C. Reumatologia DH ASST Gaetano Pini, Centro Specialistico Ortopedico Traumatologico Pini-CTO di Milano -. L’artrite reumatoide è una malattia multiforme in quanto può variare per modalità di esordio, decorso clinico, caratteristiche sieroimmunologiche e risposta ai trattamenti. Rispetto ad altre forme di artrite, in quella precoce e aggressiva, l’infiammazione a livello della membrana sinoviale che riveste l’interno di tutte le articolazioni mobili del nostro organismo, comporta un precoce danno anatomico agli altri tessuti articolari, soprattutto alla cartilagine e all’osso subcondrale ma anche a tendini e legamenti, arrivando, nel giro di un paio di anni, alla completa abolizione della funzionalità del distretto articolare colpito. Pertanto, questa forma di malattia, che interessa il 40% dei pazienti all’esordio, si associa a una maggiore disabilità e a una più alta mortalità per manifestazioni extra articolari, in primis per patologia cardiovascolare che colpisce soprattutto le donne tra i 40 e i 50 anni, con una riduzione della sopravvivenza dai 3 ai 10 anni. Questi dati ci aiutano a comprendere quanto la diagnosi precoce possa cambiare le sorti dei pazienti”.

Ma cos’è l’artrire rematoide (AR)? È una patologia infiammatoria di origine autoimmune ad andamento invalidante e a carattere sistemico. In Italia interessa lo 0,5% della popolazione, 300mila persone, il 75% delle quali è di sesso femminile. Quando la malattia sopraggiunge, alcune cellule, dette im­munocompetenti, invadono la membra­na sinoviale rilasciando diverse sostanze che attaccano i tessuti delle articolazioni e generano un processo infiammatorio che determina una produzione sovrab­bondante di liquido con conseguente tumefazione e gonfiore. L’aumento di volume della membrana, inoltre, erode la cartilagine che riveste i capi ossei e l’osso sottostante, causando un danno permanente e, nei casi più gravi, può far addirittura scomparire l’articola­zione (anchilosi).

Per quanto i sintomi della malattia si­ano piuttosto comuni, le modalità di esordio, il decorso clinico e le caratte­ristiche sieroimmunologiche dell’AR sono estremamente mutevoli, e ciò ha implicazioni anche dal punto di vista della risposta ai trattamenti. In circa un quarto dei pazienti l’erosione articolare si sviluppa rapidamente entro 3 mesi dall’insorgenza della malattia; la restan­te parte della popolazione affetta svilup­pa erosioni entro i primi 2 anni dalla diagnosi.

Le articolazioni più colpite sono quelle di mani, poi i polsi e quindi i piedi, le ginocchia, i gomiti, le caviglie, le spalle, le anche, la colonna cervicale, le articolazioni temporo-mandibolari. I pazienti possono manifestare, in una percentuale non trascurabile, anche al­terazioni in sedi extra-articolari con il coinvolgimento di cute, occhi, cuore, polmone, rene, sistema nervoso perife­rico e centrale, apparato gastrointesti­nale.

Sebbene l’AR sia caratterizzata da un decorso cronico, è tuttavia possibile identificare alcuni fattori prognostici negativi che indicano un’evoluzione più accelerata e più severa della ma­lattia:

– indici di flogosi (VES e PCR) elevati
– numerosità delle articolazioni infiammate
– precoce danno erosivo a li­vello osseo
– positività ad alcuni biomarcatori quali il fattore reu­matoide (FR) e gli anticorpi anti pepti­de ciclico citrullinato (ACPA).

L’American College of Rheu­matology (ACR) e l’European League against Rheumatism (EULAR) hanno inserito tra i criteri di classificazione dell’AR sia il livello del FR, sia lo sta­tus ACPA, in quanto espressioni di un decorso più severo e più rapido dell’AR, ovvero di quella forma peculiare che viene clinicamente definita come pre­coce e aggressiva. In particolare, gli anticorpi ACPA han­no cambiato molto in termini di diagno­si, prognosi e trattamento della patolo­gia, in quanto consentono di identificare popolazioni maggiormente a rischio di sviluppo di erosione – e quindi di danno osseo e articolare – e al tempo stesso un target di pazienti cui indirizzare tera­pie mirate e sempre più personalizzate. Evidenze scientifiche hanno dimostrato che la presenza degli ACPA sta a indi­care una risposta autoimmune in corso, spesso già molti anni prima della com­parsa dei primi sintomi di malattia. Da un punto di vista funzionale, questi anticorpi hanno un ruolo patogenetico diretto nell’AR, esercitando un’azione sull’erosione ossea tramite un’azione di­retta sugli osteoclasti, le cellule deputa­te al riassorbimento osseo. La presenza degli ACPA, oltre a essere direttamente correlata all’aggressività della malat­tia e a un maggiore grado di erosione articolare e danno radiografico, è inoltre associata a una maggiore inci­denza di comorbilità (in particolare di tipo cardiovascolare) che determina un incremento di mortalità generale tra la popolazione affetta da AR. Per questo motivo un’azione terapeutica precoce e mirata (in grado di agire sia sull’au­toimmunità che sull’infiammazione) risulta fondamentale per ritardare il decorso della patologia e migliorare le prospettive e la qualità di vita dei pazienti, spesso invece compromesse da una scoperta tardiva della malat­tia.

La valutazione precoce dei pazienti con test del FR e degli anticorpi ACPA consente di agire anche sui fattori di ri­schio e gli stili di vita, primo fra tutti il fumo di sigaretta. Un recente studio realizzato dall’Hôpitaux Universitaires Paris-Sud ha infatti dimostrato che, nei fumatori, l’essere stati esposti al tabacco precocemente a causa del fumo passivo respirato durante l’infanzia aumenta in modo significativo il rischio di svi­luppare l’AR. Inoltre, oltre a essere un fattore predisponente per l’insorgenza della malattia, il fumo, nei soggetti già affetti dalla malattia, è anche un fattore di rischio maggiore rispetto alle persone sane per lo sviluppo di infezioni respi­ratorie, tumori, patologie cardiovasco­lari. In particolare, le donne tra i 40 e i 50 anni sono le più vulnerabili alle complicanze cardiache, con una ridu­zione della sopravvivenza dai 3 agli oltre 10 anni. Per questo motivo, gli esperti suggeriscono di adottare alcuni accor­gimenti alimentari (ridurre il consu­mo di sale, grassi animali e zuccheri) per contrastare ipertensione, colesterolo e diabete. Condurre una vita attiva e dedicarsi a un moderato esercizio aero­bico, come camminare, è di grande aiuto per mantenere la mobilità e il trofismo dei muscoli. Sconsigliato in fase acuta di malattia, l’esercizio fisico è fortemente indicato nei periodi di remissione, in cui le articolazioni non sono infiammate.

 

I CONSIGLI DELLA SOCIETÀ OFTALMOLOGICA ITALIANA SULLE LENTI A CONTATTO

I CONSIGLI DELLA SOCIETÀ OFTALMOLOGICA ITALIANA SULLE LENTI A CONTATTO

Applicare le lenti a contatto e non sentirle più dopo pochi minuti è per molti soggetti ametropi un piccolo miracolo quotidiano.

“La prima raccomandazione per chi vuole portare lenti a contatto è di sottoporsi a una visita oculistica di idoneità presso un medico oftalmologo, evitando di affidarsi a figure tecniche che non hanno le competenze adatte – spiega Pasquale Troiano, Consigliere SOI (Società Oftalmologica Italiana) -. La visita ha l’obiettivo di verificare la presenza di eventuali fattori di rischio e di capire se la lente a contatto può essere portata con tranquillità dal soggetto o se bisogna adottare particolari accorgimenti, come ridurre il numero di ore di applicazione, per esempio per chi ha problemi di natura allergica. Una volta verificata l’idoneità, sarà il medico oculista a orientare il paziente verso la tipologia di lente più adatta allo specifico tipo di occhio. Potrà essere rigida, morbida o gas-permeabile. La lente a contatto morbida è certamente la lente a contatto preferibile nella stragrande maggioranza dei casi. La lente rigida è riservata ai casi in cui la morbida, per motivi tecnico-strutturali, risulterebbe inadeguata: l’esempio classico è l’occhio con cheratocono, cioè una deformazione della cornea tale non poter essere corretta da una lente morbida”.

Le tipologie di lente morbide si differenziano poi per la durata. Possono essere: a ricambio giornaliero, settimanale, quindicinale, mensile e trimestrale. Raramente si va oltre come durata, come invece si faceva alcuni anni fa, perché occorre ricordare che le lenti morbide, a lungo andare, possono diventare un ricettacolo di germi, per quanto accurata la manutenzione fatta. Più rapido è il ricambio più sicura è la lente.

Una volta scelta la lente a contatto più adatta, è importante per il paziente sottoporsi a una visita medica oculistica periodica di controllo, la prima sei mesi dopo la prescrizione, e poi le successive con cadenza annuale, per verificare che l’occhio sia “confidente”, cioè stia bene con le lenti a contatto.

Acquistate le lenti, il paziente dovrà gestirle autonomamente. Il primo obiettivo per lui sarà quello di imparare a indossarle e a rimuoverle senza esitazioni, per esempio nel caso in cui diano fastidio o sia presente un corpo estraneo nell’occhio.

“Per maneggiare le lenti e tutto ciò che riguarda la loro conservazione, come i flaconi per la manutenzione e i contenitori, è assolutamente necessario avere le mani pulite. Immediatamente prima, occorre quindi lavare e asciugare accuratamente le mani perché l’acqua può rimanere sulle dita e non è sterile – spiega Troiano -. La soluzione migliore è quindi utilizzare tovagliette usa e getta in carta, evitando gli asciugamani e anche i getti d’aria che, come rilevato da alcuni studi, possono essere contaminati da una notevole carica batterica.

Altre raccomandazioni fondamentali per la salute dell’occhio riguardano la gestione delle lenti monouso, pensate per essere indossate la mattina e tolte la sera. Una volta rimosse, le lenti monouso non sono più utilizzabili e vanno pertanto buttate, perché le loro caratteristiche costruttive non ne permettono una corretta manutenzione senza un conseguente danneggiamento.

Occorre ricordare anche una semplice norma per garantire alla superficie oculare una corretta ossigenazione: bisogna applicare le lenti a contatto il più tardi possibile dopo il risveglio e rimuoverle il prima possibile prima di dormire. Il motivo per cui, dopo pochi minuti di applicazione, la presenza della lente non si avverte più è che essa riduce così tanto la concentrazione di ossigeno a livello della superficie oculare che le terminazioni nervose della cornea smettono di funzionare. Una mancanza di ossigenazione simile si riproduce quando la palpebra è abbassata, anche se una minima concentrazione di ossigeno sulla superficie oculare ed è garantita dai vasi sanguigni della palpebra superiore. È quindi fortemente consigliabile lasciare qualche ora gli occhi senza lenti durante la veglia, evitando così una condizione di ipossia cronica della superficie oculare che può condurre a una serie di problematiche anche abbastanza rilevanti sul piano clinico.

Pericolosissimo è il pisolino con le lenti a contatto applicate; prima di dormire anche se per poco tempo è assolutamente necessario rimuovere le lenti a contatto.

Quando, poi, si avverte un qualsiasi disturbo agli occhi bisogna evitare d’indossare le lenti. È esperienza comune per gli oculisti visitare pazienti che si presentano in ambulatorio con gli occhi in pessimo stato ma con ancora le lenti indossate.

Per finire, vale la pena di segnalare alcune importanti novità del settore: da alcuni anni sono presenti anche lenti a contatto “multifocali” che permettono di compensare la presbiopia. Come gli occhiali multifocali queste lenti non sono facilmente tollerate e hanno un elevato tasso di abbandono.  Recentemente è stata realizzata una nuova tipologia di lente a contatto in grado di compensare la presbiopia senza avere i disturbi caratteristici delle lenti multifocali.

Sono denominate lenti afocali e sono un brevetto integralmente italiano.

Queste stesse lenti, inoltre, sono caricate con lacrime artificiali, rilasciate sull’occhio per effetto del movimento della palpebra durante l’ammiccamento.

Ciò consente un’adeguata lubrificazione della superficie oculare, aumentando il livello di tolleranza di queste lenti nei soggetti over40, un’età in cui possono esserci dei problemi per le prime manifestazioni dell’occhio secco.

UNA NUOVA CAMPAGNA PER FERMARE L’INDIFFERENZA

UNA NUOVA CAMPAGNA PER FERMARE L’INDIFFERENZA

“Come si può anche solo pensare di usare la violenza contro una donna? Da uomo e da Sindaco mi sto impegnando per fermare questa brutalità Stiamo già facendo molto, ma ora ogni uomo è chiamato a impegnarsi personalmente con un semplice atto di responsabilità civile”. È questo il pensiero di Angelo Rocchi, Sindaco del Comune di Cologno Monzese.

Contrastare con decisione il fenomeno della violenza sulle donne creando un Comitato di Uomini virtuosi che siano d’esempio per l’intera comunità. Sono le basi della Campagna #NoiFermiamoL’Indifferenza promossa da Janssen Italia, azienda farmaceutica di Johnson & Johnson, e dal Comune di Cologno Monzese in collaborazione con l’Associazione di volontariato sociale “con Noi e Dopo di Noi” Onlus.

La Campagna prevede il coinvolgimento di un rappresentante maschile per ogni categoria professionale di Cologno Monzese (tassisti, forze dell’ordine, docenti, dirigenti scolastici, farmacisti, medici, sportivi, commercianti, avvocati). Per aderire all’iniziativa contattare il numero 02.25308353 o scrivere a noindifferenza@comune.colognomonzese.mi.it). Un impegno personale a presentare e attivare azioni di sensibilizzazione sul tema della violenza di genere.

“Con la Campagna #NoiFermiamoL’Indifferenza abbiamo deciso di fare un passo in più: esporci in prima persona, insieme al Sindaco Rocchi, per dire davvero basta a violenze e soprusi. La speranza è che tanti altri uomini si uniscano a noi per costituire un gruppo compatto che possa aiutare concretamente le donne vittime di abusi. Crediamo fermamente, infatti, che non si debba insegnare alle donne a difendersi, bensì insegnare agli uomini a non essere violenti”.

Una realtà che non accenna a diminuire. Nel 2016 in Italia le donne uccise per mano di un uomo, famigliare o compagno, sono state 120. Negli ultimi dieci anni sono state 1.740, di cui 1.251 (il 71,9 per cento) in famiglia. Per non parlare, poi, delle violenze sessuali che in Italia fanno registrare 11 denunce al giorno, 4mila l’anno, anche se a livello europeo il tragico primato va al Regno Unito (35mila), alla Germania (29mila) e alla Francia (circa 20mila).

Oltre cento donne ogni anno vengono uccise in Italia da uomini, quasi sempre loro compagni o mariti. Migliaia quelle aggredite, picchiate, perseguitate, sfregiate. Quasi 7 milioni, secondo i dati Istat, nel corso della propria vita hanno subito almeno una forma di abuso.

Il progetto intende arrivare alla creazione di un Comitato di Uomini uniti dietro un deciso NO! alla violenza di genere. Far nascere una rete di uomini sotto il claim #NoiFermiamoL’Indifferenza, che da attori passivi diventeranno parte attiva, compatti contro questo terribile fenomeno sociale che provoca danni non solo fisici, ma anche e soprattutto psicologici. I più difficili da superare e accettare.

“La Campagna riprende anche il Progetto Artemisia, che in questi sei anni di attività ha aiutato 77 donne e si sviluppa in due filoni principali: lo sportello di ascolto, ideato per offrire un aiuto concreto alle donne vittime di abusi e la promozione di cultura sul tema della violenza di genere, attraverso iniziative di sensibilizzazione rivolte alla cittadinanza e percorsi di educazione e prevenzione rivolti alle giovani generazioni, uomini e donne di domani”, precisa Massimo Scaccabarozzi, Presidente e Amministratore Delegato di Janssen Italia.

Progetto Artemisia è stato ideato e promosso a partire dal 2011 dall’Assessorato alle Pari Opportunità del Comune di Cologno Monzese (MI), con il contributo non condizionato di Janssen Italia. Prevede una serie di iniziative per contrastare e prevenire il grave fenomeno della violenza sulle donne. L’obiettivo è promuovere un radicale cambiamento socio-culturale sul tema della violenza di genere. Si sviluppa su due filoni principali: lo “Sportello Artemisia”, pensato per offrire uno spazio di ascolto alle donne vittime di abusi, e la promozione di cultura sul tema della violenza di genere attraverso momenti di sensibilizzazione e percorsi di educazione e prevenzione rivolti alle giovani generazioni.

Per quanto riguarda lo Sportello (attivo su appuntamento al 339 1894966 tutti i martedì e giovedì), in questi anni ha già aiutato 77 donne, offrendo loro informazioni, consulenze legali e sostegno psicologico. Impiegate, operaie, insegnanti, dai 25 ai 65 anni, con gradi d’istruzione e storie personali diverse. Dopo il primo contatto, grazie al lavoro di un’equipe multidisciplinare (psicologhe, pedagogiste e avvocati), si procede con una risposta individualizzata e mirata (orientamento e invio ai servizi, presa in carico legale ecc…). In molti casi si promuovono percorsi di sostegno psicologico pensati per dare voce al disagio di queste donne, portandole ad affrontare un percorso di rielaborazione del proprio vissuto, spesso tragico, e di emancipazione da una posizione passiva e di impotenza.

L’obiettivo è ridurre l’isolamento vissuto da chi si trova in una situazione di conflittualità relazionale, conclamata violenza o di maltrattamento e far prendere loro coscienza della propria situazione, così che non possa ripetersi. Tutto questo, ovviamente, garantendo la massima riservatezza e segretezza. Nel percorso di aiuto, la collaborazione con i medici, i farmacisti e la rete sociale del territorio (associazioni, servizi) risulta fondamentale: circa la metà delle telefonate allo Sportello arriva in seguito al consiglio di un medico o grazie alle locandine esposte all’interno delle farmacie e delle associazioni di Cologno Monzese.

Per quanto concerne le attività di sensibilizzazione, il Comune promuove interventi culturali sul territorio e percorsi di prevenzione alla violenza. Ne sono un esempio la serata “Non solo a Marzo”, organizzata in occasione della Giornata della Donna (8 marzo) per far riflettere sulla parità di genere e sul ruolo della donna attraverso performance musicali e teatrali. E ancora, la mostra “La mia ferita la mia forza” del 19 novembre 2016, un ulteriore esempio di come l’arte possa porre l’attenzione su questa tematica, che ha visto protagoniste le opere dell’artista Pinuccia Mazzocco, ispirate al libro di Lucia Annibali “Io ci sono. La mia storia di non amore”. Per la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne (25 novembre), invece, sono stati coinvolti i ragazzi dell’Istituto Leonardo da Vinci di Cologno Monzese, protagonisti per un giorno nella promozione di una mattinata per riflettere, discutere e confrontarsi sul tema della violenza contro le donne.

Io sono certa che nulla più soffocherà la mia rima. Il silenzio l’ho tenuto chiuso per anni nella gola come una trappola da sacrificio. È, quindi, venuto il momento di cantare una esequie al passato

È affidato a queste rime della poetessa Alda Merini (Milano, 21 marzo 1931 – 1° novembre 2009), il significato più profondo del “Progetto Artemisia” che trae il suo nome dalla pittrice seicentesca Artemisia Gentileschi, vittima di stupro, insultata e diffamata nel corso del processo contro il suo violentatore, infine, ritenuto colpevole dai giudici.

MAMMOGRAFIA DIGITALE CON TOMOSINTESI. MENO RADIAZIONI E MAGGIORE EFFICACIA

MAMMOGRAFIA DIGITALE CON TOMOSINTESI. MENO RADIAZIONI E MAGGIORE EFFICACIA

Il mese di ottobre sarà dedicato ancora una volta alle donne per sensibilizzarle sull’importanza della prevenzione e della diagnosi precoce. La Lilt Milano (Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori) ha dato il via a una serie di iniziative: informazione, sport, shopping, mostre e l’invito a sottoporsi a visite senologiche gratuite negli Spazi Prevenzione, nelle Università Bicocca, Politecnico e Iulm, e sull’Unità Mobile che farà tappa in vari comuni dell’hinterland milanese.

“Non dobbiamo abbassare la guardia nella battaglia contro il tumore al seno – afferma il professor Marco Alloisio, Presidente di Lilt Milano –. Il rapporto Aiom/Airtum ‘I numeri del cancro in Italia 2017’ riporta 50.500 nuovi casi di carcinoma della mammella con un trend di incidenza in leggero aumento (+0,9% per anno). È  in crescita però, e questa è la buona notizia, anche la percentuale di donne che sopravvivono a 5 anni dalla prima diagnosi: si è arrivati all’87% nel 2017 contro l’85,5% del 2016. La diagnosi precoce resta quindi un’arma fondamentale, e in quest’ottica gli Spazi Prevenzione della Lilt si stanno dotando di macchinari all’avanguardia per garantire una sempre maggiore accuratezza diagnostica. Nei nostri ambulatori abbiamo installato quest’anno mammografi digitali dotati di Tomosintesi: si tratta di una metodologia radiologica tridimensionale ad alta definizione con la quale è prodotta un’immagine 3D di elevata qualità, con una netta riduzione della dose di radiazioni”.

A settembre 2017 è stato installato il primo mammografo digitale con Tomosintesi nello Spazio Prevenzione di Monza. Entro la fine dell’anno ne sarà installato uno nello Spazio Prevenzione di Milano in via Viganò, mentre nello nello Spazio Prevenzione in via Nera sarà effettuato l’aggiornamento del software. Nel 2018 si avrà un nuovo mammografo digitale con Tomosintesi nello Spazio Prevenzione di Milano in viale Caterina da Forlì e l’aggiornamento software del macchinario presente nell’ambulatorio di Sesto San Giovanni.

L’impegno economico necessario per l’acquisto di queste apparecchiature radio-diagnostiche viene affrontato grazie al sostegno delle numerose iniziative di raccolta fondi.

Ma cos’è la mammografia digitale con Tomosintesi?

“È una tecnica radiologica di nuova generazione in grado di esaminare il seno in maniera tridimensionale e con una elevata accuratezza diagnostica: possono così essere evidenziate anche lesioni tumorali molto piccole, con percentuali pari quasi al doppio di quelle offerte dalla mammografia digitale tradizionale – spiega Gianfranco Scaperrotta, responsabile S.S. Diagnostica Senologica alla Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano -. Il macchinario, invece di restare fisso, ruota intorno al seno e produce una combinazione di immagini tridimensionali multistrato (3D) con immagini convenzionali “ricostruite” a due dimensioni (2D). Si tratta di un esame quasi 3D: in una singola proiezione si può localizzare tridimensionalmente una lesione, senza bisogno dell’altra proiezione perpendicolare”.

La mammella viene studiata a “strati”, è cioè scomposta in tante sezioni dello spessore di un millimetro, in modo da evidenziare anche tumori di piccole dimensioni. È stato dimostrato che la Tomosintesi è in grado di aumentare il tasso di diagnosi tumorali (soprattutto di carcinomi invasivi) e di ridurre il tasso di richiamo di donne per ulteriori accertamenti: 41% in più di tumori al seno invasivi localizzati, 15% in meno di richiami per indagini diagnostiche aggiuntive a causa di probabili falsi negativi, e 29% in più di ‘veri’ carcinomi mammari riscontrati (*).

Il mammografo digitale con Tomosintesi è un apparecchio in cui l’immagine radiologica si forma per trasformazione diretta dell’energia dei raggi X emergenti dalla mammella in segnale elettronico che arriva subito alla postazione del radiologo per la valutazione. Con questo nuovo tipo di mammografia la mammella deve essere sempre compressa durante l’esposizione radiologica e l’esame dura solo pochi secondi in più di quello standard. Rispetto alla mammografia analogica/digitale indiretta, quella digitale diretta consente una riduzione della dose di raggi X.

Non esistono particolari controindicazioni alla mammografia digitale con Tomosintesi, che fornisce immagini di elevata qualità anche in caso di protesi al seno. L’esame può essere effettuato da donne di qualsiasi età e con mammelle di qualunque composizione: può presentare dei limiti solo in caso di seni estremamente densi (la densità non è necessariamente legata all’età e riguarda meno del 10% delle donne).

Questa tecnologia è stata approvata per la prima volta negli Stati Uniti nel 2011 ed è disponibile anche altri centri italiani. A Milano e provincia e a Monza le donne possono sottoporsi a mammografia digitale con Tomosintesi in 12 su 23 tra i principali ospedali e centri specialistici, sia con il Servizio Sanitario Nazionale che privatamente: nella maggior parte dei casi si tratta di un approfondimento diagnostico che viene eseguito a discrezione del radiologo, dopo adeguata valutazione dei possibili dubbi o sospetti riscontrati nella normale mammografia digitale.

Volontari Lilt in uno degli ambulatori dell’associazione

 

È infatti ancora aperto un forte dibattito su come utilizzare routinariamente questa nuova efficace tecnologia e come diffonderla adeguatamente sul territorio. La principale iniziale difficoltà era legata alla Tomosintesi che di fatto implicava un doppio esame e quindi non ne permetteva un uso a tappeto. Oggi il problema è stato risolto grazie alla miglioria tecnologica del sistema che permette di acquisire direttamente immagini 3D e poi di ricostruire sinteticamente la “vecchia” mammografia digitale con un dimezzamento delle dosi erogate. Pertanto siamo già proiettati nella nuova era della mammografia 3D, che utilizzerà solo immagini di Tomosintesi, senza più alcuna discrezionalità da parte del medico-radiologo.

“Nel 2016 quasi la metà delle oltre 119.000 visite ed esami di diagnosi precoce che abbiamo effettuato nei nostri Spazi Prevenzione hanno riguardato il cancro al seno – riferisce il professor Marco Alloisio -. E durante lo scorso anno abbiamo effettuato oltre 30 mila visite al seno, più di 16mila mammografie, più di 9 mila ecografie mammarie, e quasi 2.200 visite gratuite (tra Unità Mobile, Spazi Prevenzione e Atenei).  Siamo molto impegnati sul fronte della prevenzione e della diagnosi precoce, grazie alle quali, per quanto riguarda il tumore al seno, nell’80% dei casi non si effettuano più interventi demolitivi (mentre 25 anni fa venivano eseguite mastectomie nel 50% delle donne). Gli screening partono oggi dai 49 anni ma l’insorgenza del cancro al seno è ormai sotto i 40. Nonostante ci siano 365 mila nuovi casi di tumore all’anno, 1000 al giorno, le cose stanno andando meglio: si ammalano donne più giovani ma abbiamo anche apparecchiature all’avanguardia, come i mammografi digitali con Tomosintesi, che garantiscono una accuratezza particolarmente elevata e consentono di evidenziare tumori molto piccoli”.

(*) Fonti: Ciatto et Al.Lancet Oncology 2013, Skaane et Al. Radiology 2013, Rose et Al. Am J Roentg 2013, Greenberg et Al. Am J Roentg 2014, Friedewald et Al. JAMA 2014

La Lega italiana per la Lotta contro i Tumori (LILT) – Sezione Provinciale di Milano, fondata nel 1948 sulla spinta di una forte cultura della solidarietà e dell’educazione alla salute, opera sul territorio di Milano e provincia affrontando il problema cancro nella sua globalità attraverso molteplici servizi offerti alla popolazione nell’ambito della prevenzione, della diagnosi precoce e dell’assistenza, supportata dall’ausilio di oltre 700 volontari appositamente formati.

L’Associazione, riconosciuta dalla Regione Lombardia come organizzazione senza fini di lucro e di attività sociale, fa parte di un Ente Pubblico su base associativa che opera sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica.

Obiettivo primario della LILT è la prevenzione e la diffusione della cultura della diagnosi precoce attraverso gli Spazi Prevenzione. Prevenzione che si sviluppa a 360 gradi, diventando anche prevenzione del disagio legato alla malattia e quindi assistenza in tutti i bisogni che emergono, in favore di un’attenzione alla qualità di vita del malato.

Nel 2010, la Sezione Provinciale di Milano della LILT ha ottenuto la certificazione di qualità ISO 9001:2008 per i servizi di prevenzione, assistenza e volontariato.

Le principali aree di intervento possono essere sintetizzate come segue.

Prevenzione Primaria: informazione e sensibilizzazione della popolazione all’adozione di un corretto stile di vita, campagne di educazione sanitaria contro il fumo nelle scuole di ogni ordine e grado, attività di disassuefazione dal fumo basata su percorsi personalizzati nei Centri Antifumo di Milano e Monza, conferenze e assistenza per l’applicazione della “No smoking policy” nelle aziende.

Diagnosi Precoce: Spazi Prevenzione a Milano e provincia a disposizione della cittadinanza, che ha la possibilità di usufruire dei servizi di diagnosi precoce come: visite al seno, alla cute, al cavo orale e alla prostata-retto ed esami quali la mammografia, l’ecografia mammaria e il Pap-test. Visite presso i Comuni e le aziende di Milano e dell’hinterland che ne fanno richiesta.

Assistenza e Volontariato: assistenza socio-sanitaria agli adulti e ai bambini, servizio di trasporto dei malati alle terapie ambulatoriali, presidi sanitari e fornitura dei medicinali a domicilio, alloggio ai pazienti e ai familiari provenienti da tutta Italia per le terapie. Scuola di Formazione dei volontari e supervisione costante ai volontari in attività: il loro apporto è infatti indispensabile per la realizzazione dei numerosi servizi offerti.

Ricerca: finanziamento della ricerca clinica ed epidemiologica attraverso borse di studio, erogazione di contributi ad altre istituzioni che operano nel campo della prevenzione oncologica, congressi e corsi di formazione e aggiornamento del personale sanitario.

Numerose, quindi, le attività di informazione e sensibilizzazione realizzate e supportate da un costante e intenso impegno nella promozione e nella raccolta fondi. L’Associazione non gode di entrate fisse, ma opera solo grazie al contributo economico e personale di tutti coloro che prendono parte alle molteplici manifestazioni organizzate nel corso dell’anno o nell’ambito del programma di volontariato. Grazie al sostegno di tutti, la LILT continua ad essere da quasi 70 anni un costante e affidabile punto di riferimento nella lotta per la vita.

IL PUNTO DI VISTA DEL NUTRIZIONISTA SULLE INTOLLERANZE ALIMENTARI

IL PUNTO DI VISTA DEL NUTRIZIONISTA SULLE INTOLLERANZE ALIMENTARI

Cefalee, emicranie, stanchezza cronica, stitichezza, coliti, colon irritabile, predisposizione a candidosi, micosi, dismenorree, palpitazioni, insonnia, agitazione notturna, sovrappeso, cellulite, asma, tosse, eczemi, rinite, sono alcuni dei sintomi delle intolleranze alimentari. Ce ne parla il Dottor Piccione, laureato in scienze biologiche, dottore di ricerca in Chimica degli alimenti ed esperto in Qualità ed igiene degli alimenti e nutrizione umana.

Ultimamente nel campo dell’alimentazione si sta registrando un interesse crescente verso le cosiddette “intolleranze alimentari”, che fino a poco  tempo fa, tranne quelle per deficit enzimatico, erano ritenute infondate dal punto di vista scientifico. La più conosciuta è l’intolleranza al lattosio, causata dal deficit dell’enzima lattasi.

Il modo più corretto per definire oggi le “intolleranze alimentari” dovrebbe essere “allergie alimentari ritardate”, perché certi alimenti alterano il nostro organismo senza che noi ce ne rendiamo subito conto.

Non esiste un’univoca classificazione e definizione delle “intolleranze alimentari”, cosi come non sono ancora ben chiari i meccanismi alla base dello sviluppo di questi disturbi. La perdita della permeabilità della mucosa intestinale e le modificazioni a carico della flora intestinale sembrano essere responsabili di una serie di risposte immuni e reazioni infiammatorie tali da comportare una sintomatologia, se prolungate nel tempo. Una dieta a esclusione modificata e il ripristino della flora intestinale, quindi, possono agire positivamente sulle varie sintomatologie.

 

INCOMPRENSIONI DI COPPIA IN CHAT O SUI SOCIAL E I CONSIGLI DELLO PSICOLOGO

INCOMPRENSIONI DI COPPIA IN CHAT O SUI SOCIAL E I CONSIGLI DELLO PSICOLOGO

Stando ai dati, dal 1995 le separazioni sono aumentate del 61% e sono più che raddoppiati i divorzi, e secondo un’indagine condotta dal sito Divorce Online, i social media e gli strumenti di messaging sono una delle 7 principali cause per cui i partner decidono di dividere le loro strade.

“La tecnologia ci fa sentire più vicini e meno soli e in tanti casi può aiutare a mantenere contatti con persone lontane, ma tutto sta in come la si usa e da quanto ci si lascia sedurre da un ex del passato, da corteggiatori conosciuti da amici di amici, dalle fotografie più o meno esplicite. Una crisi è un piatto che può essere servito con molta facilità. La tecnologia è un mezzo di servizio, non può sostituire tutto ciò che può dare la metacomunicazione. Guardarsi negli occhi, vedere le espressioni facciali, o sentire l’odore della persona che si ha di fronte, permette di cogliere anche ciò che non viene esplicitato dalle parole. Essere fraintesi con un messaggio o con un post, poi, è estremamente semplice: non sempre con la scrittura si riesce a essere efficaci come si vorrebbe”, commenta il Professor Giuseppe Lavenia, Presidente dell’Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche e Cyberbullismo, psicologo e psicoterapeuta esperto anche in tematiche di coppia.

Ci sono atteggiamenti sospetti di uno dei partner che innescano il bisogno di controllo nell’altro, come guardare quando ha aperto WhatsApp l’ultima volta e continuare a rimuginare sul perché non ha letto il messaggio che gli abbiamo inviato, verificare chi è entrato nella lista dei suoi nuovi amici su un social media, o cercare di scoprire con un app se ha detto la verità sul dove si trovava nel momento in cui non ha ripetutamente risposto al telefono. Il controllo, però, fa più male a chi lo fa, rispetto a chi lo riceve.

“Tanta insicurezza. Quando nella vita a due mancano ingredienti fondamentali come fiducia e rispetto, e non si riesce a fare in modo che diventino le fondamenta della coppia, allora bisognerebbe farsi delle domande. Perché penso che qualcun altro sarà sempre meglio di me? Perché ho bisogno di mettere i puntini sulle i su tutto quello che dice? Perché appena ne ho l’occasione vado a vedere il suo telefono? Ci possono essere motivazioni personali, magari frutto di un passato mai elaborato, o una mancanza di comunicazione verbale tra i due partner che non fa altro che insospettire. Ogni caso è a sé, e va indagato”, spiega il Professor Lavenia.

Come possono l’estate e le vacanze essere un momento per ritrovare il noi all’interno della coppia? Ecco 5 consigli dell’esperto.

1. LA TECNOLOGIA NON È UNA NEMICA

Gli strumenti di comunicazione online sono utili mezzi di servizio e non vanno demonizzati a prescindere. Spesso, per mancanza di tempo, si possono usare per darsi un appuntamento, condividere foto, mandare video o momenti che si sarebbero voluti condividere insieme all’altro. Bisogna, però, rileggere i messaggi prima di inviarli. E avere anche un momento successivo per condividere vis à vis, arricchendo la narrazione dei fatti con le emozioni che si sono provate. Le parole sono la cornice di un quadro, non la tela con il dipinto.

2. RIDARE VALORE ALLA RELAZIONE

Ogni essere umano è in continua evoluzione, e di conseguenza lo è anche la coppia. La condivisione del punto in cui ci si trova, quindi, è sempre importante. Altrimenti ci si perde di vista. Per farlo pienamente bisogna imparare a disconnettersi dai social e dalle chat e connettersi con la persona che si ha davanti. Si può dare, così, fiducia alla persona con cui si condivide il percorso di vita. Non rifiutare e non sfuggire a chiamate se arrivano mentre si sta chiacchierando, per non dare adito a sospetti. Lasciare il cellulare sul tavolo, senza portarlo ovunque, è un modo per dire “non ho niente da nascondere”. Le vacanze possono essere un buon allenamento a ritrovare una comunicazione non mediata dalle nuove tecnologie.

3. ASCOLTARSI

Le vacanze dovrebbero farci ritrovare anche un ritmo più lento, più vicino ad assecondare il bisogno di relax. Bisogna trovare un momento di silenzio ogni giorno, concedendoci dieci minuti solo per noi, da dedicare all’ascolto interiore, ma spesso non è possibile, a causa di una cattiva organizzazione del proprio tempo, o per sbrigare urgenze lavorative a cui non si può dire di no. Approfittiamo delle vacanze per chiedere a noi stessi e al partner: Cosa possiamo fare per migliorare l’intesa di coppia? Quali desideri si possono realizzare insieme? Mettere a tacere gli smartphone può essere utile anche per capire a che punto del progetto della vita a due si è giunti.

4. RIACCENDERE IL DESIDERIO

Se il desiderio è in calo non portiamo a letto tablet, pc e smartphone. La dipendenza tecnologica, tra i suoi effetti, presenta anche astenia sessuale data dall’abbassamento del livello di testosterone, l’ormone responsabile della libido maschile. Secondo uno studio americano, sembra che il 16% degli uomini soffrono di totale assenza di stimoli sessuali nei confronti della partner per via del troppo tempo passato a postare e twittare. Navigare continuamente, poi, fa scemare anche le fantasie sessuali di coppia con una conseguente crisi all’interno della relazione. Onde evitare che il malessere nella vita a due si protragga è consigliato riappropriarsi della propria intimità. In vacanza non si ha nemmeno la scusa della sveglia: il cellulare può rimanere in un’altra stanza.

5. RITROVARE IL PIACERE DI MOMENTI CONVIVIALI

Bisogna trovare un equilibrio tra vita reale e vita mediata dallo schermo, altrimenti si rischia di trascurare ciò che si ha nella vita. Il tempo dedicato a una cena fuori con il partner, o a casa, deve essere off limits per pc, cellulare, videogiochi, tablet. Deve, quindi, rimanere tutto spento (a parte il telefono se ci sono necessità famigliari) per accendere l’attenzione su chi si ha di fronte. No al cellulare a tavola mentre si pranza o si cena: questi due momenti devono essere dedicati al confronto e all’ascolto dell’altro.

Professor Giuseppe Lavenia

Presidente dell’Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche e Cyberbullismo,

psicologo,

psicoterapeuta.

DIRE ADDIO ALL’INSONNIA E MIGLIORARE LA SALUTE

DIRE ADDIO ALL’INSONNIA E MIGLIORARE LA SALUTE

Nell’antica Grecia, il sonno è rappresentato come un adolescente, che corre leggero sulla terra con un papavero stretto nella mano sinistra, e nella destra un recipiente colmo del suo succo per dare agli uomini il riposo del corpo e della mente. Il sonno, dunque, dona quiete ed energia, ma sempre più persone soffrono di insonnia.

Il lavoro, lo stress, l’avanzare dell’età, la menopausa, le nuove tecnologie che permettono di controllarne  la posta e i social networks a qualsiasi ora del giorno sono complici di una notte persa. 9 milioni di italiani, infatti, sono colpiti da tale disturbo che si ripercuote negativamente sulla salute, sul lavoro e sulla qualità della vita. A dimostrarlo uno studio condotto in 5 Paesi dell’Unione Europea, tra cui l’Italia, su 62 mila persone tra individui affetti da insonnia, in trattamento e non, e persone sane.

L’indagine ha rilevato un collegamento significativo tra insonnia e deterioramento della qualità di vita. I pazienti riferiscono un impatto negativo sul lavoro, più che doppio rispetto a chi non è affetto dal disturbo (38,74% vs. 14,86%). Si registra, così, un maggiore assenteismo, compromissione delle performance lavorative e delle attività in generale, oltre un aumento dell’utilizzo di servizi e prodotti medici. Nell’arco di 6 mesi è stato calcolato un numero di visite più alto rispetto ai pazienti non insonni (9,10 vs. 4,08).

Un buon riposo notturno, quindi, è un elisir di salute e benessere. “Per il nostro organismo, dormire bene è importante quanto nutrirsi o dissetarsi – spiega il Professor Lino Nobili, neurofisiopatologo e neuropsichiatra, Coordinatore Scientifico del Progetto Sonno & Salute –. Qualsiasi situazione che interferisce con la qualità e la quantità del sonno contribuisce ad alimentare problemi di natura psicologica, cognitiva, endocrina, immunologica e cardio-vascolare. Intervenire precocemente sui disturbi del sonno è determinante per migliorare lo stato di salute complessivo della persona”.

L’insonnia è trattata in maniera differente a seconda della tipologia e del quadro generale del paziente. Il primo passo è rivolgersi al proprio medico, per identificare e curare l’eventuale causa transitoria che ha provocato il disturbo. L’insonnia può talvolta persistere, in tal caso due sono le principali opzioni da mettere in campo: gli interventi sul comportamento e le terapie mediche.

“Esistono numerosi metodi per correggere comportamenti scorretti che possono causare o peggiorare l’insonnia. In genere sono mirati a cambiare le abitudini, le aspettative e i comportamenti che non favoriscono il sonno nonché a ridurre i livelli di ansia”, precisa Nobili.

Dodici sono i consigli per un sonno di qualità:

1. la stanza in cui si dorme non dovrebbe ospitare altro che l’essenziale per dormire. È sconsigliabile collocare nella camera da letto televisore, computer e scrivanie per evitare di stabilire legami tra attività non rilassanti e l’ambiente in cui si deve invece stabilire una condizione di relax;

2. la camera da letto deve essere sufficientemente buia, silenziosa e di temperatura adeguata (evitare eccesso di caldo o di freddo);

3. evitare di assumere nelle ore serali bevande a base di caffeina e simili (caffè, the, Coca-Cola, cioccolata);

4. non consumare nelle ore serali o a scopo ipnoinducente, bevande alcoliche (vino, birra, superalcolici);

5. sono sconsigliati pasti serali ipercalorici o comunque abbondanti e ad alto contenuto di proteine (carne, pesce);

6. non fumare;

7. evitare sonnellini diurni, eccetto un breve sonnellino post-prandiale, e in particolare i sonnellini dopo cena, nella fascia oraria prima di coricarsi;

8. nelle ore prima di coricarsi, non praticare esercizi fisici di media-alta intensità (palestra);

9. il bagno caldo serale non dovrebbe essere fatto nell’immediatezza di coricarsi, ma a distanza di 1-2 ore;

10. evitare di impegnarsi in attività che risultano particolarmente coinvolgenti sul piano mentale e/o emotivo (studio, lavoro al computer, video-giochi etc…);

11. coricarsi la sera e alzarsi al mattino in orari regolari e costanti e quanto più possibile consoni alla propria tendenza naturale al sonno;

12. non protrarre eccessivamente il tempo trascorso a letto di notte, anticipando l’ora di coricarsi e/o posticipando l’ora di alzarsi al mattino.

“Se il disturbo non migliora si può intervenire con una terapia farmacologica. I sedativo-ipnotici a emivita breve e la melatonina 2 mg a rilascio prolungato (MRP 2mg) registrata come farmaco sono i rimedi consigliati dalle Linee Guida internazionali”, spiega il Professor Lino Nobili.

Per i primi è consigliato l’utilizzo per brevi periodi, non oltre le quattro settimane, in quanto tendono a perdere la loro efficacia se assunti sistematicamente ogni notte per lungo tempo con effetti negativi sulla struttura del sonno stesso, con effetti residui non positivi durante il giorno, come ad esempio sonnolenza e disturbi cognitivi (memoria, attenzione) che possono interferire con le attività quotidiane, inclusa la guida.

L’utilizzo di MRP 2mg è consigliato invece come prima intenzione nei soggetti insonni che hanno superato i 55 anni, ma può essere efficace anche nei soggetti più giovani. La melatonina è un ormone naturale prodotto nella ghiandola pineale e ha un ruolo importante nella regolazione dei ritmi circadiani sonno-veglia, oltre a possedere un’azione di facilitazione e induzione del sonno. Studi clinici hanno dimostrato che la formulazione a rilascio prolungato di MRP 2mg riduce significativamente il tempo di addormentamento, migliorando la qualità del sonno e le performance diurne. Il trattamento è approvato per 13 settimane continuative, in quanto MRP 2 mg non dà assuefazione e generalmente non influenza i livelli di vigilanza diurna.

Per fronteggiare il disturbo nasce, anche, il Progetto SONNO & SALUTE, grazie al contributo dell’azienda italiana: Fidia Farmaceutici. L’iniziativa rientra nelle attività previste nella Giornata Mondiale del Sonno 2017 ed è curata dagli specialisti esperti del sonno con l’obiettivo di contribuire a diffondere nel nostro paese la cultura su queste tematiche.

Una corretta e precoce identificazione dei pazienti con insonnia o altri disturbi del sonno consente di avviarli in modo tempestivo verso un percorso terapeutico idoneo.

Simone Lucci

I 10 COMANDAMENTI DELL’ALIMENTAZIONE ANTI-CELLULITE

I 10 COMANDAMENTI DELL’ALIMENTAZIONE ANTI-CELLULITE

Non esistono diete precostituite, universali e immediate. Il problema cellulite presenta una genesi multifattoriale legata all’alimentazione ma anche al processo ormonale e allo stile di vita. Quanto più la cellulite è vecchia e radicata, tanto più occorre modificare abitudini e comportamenti. Solo una metodica e costante applicazione di regole di vita equilibrate risulta vincente. Trattamenti costanti, movimento e alimentazione corretta modificano gradualmente il tessuto, tengono sotto controllo la situazione e fissano i risultati ottenuti.

Se con la cellulite non c’è un importante sovrappeso, si sconsiglia di fare diete a basso regime calorico. È molto importante invece curare la qualità degli alimenti, senza eccedere comunque nella quantità. Alcuni consigli utili:

  1. Bere molta acqua: da 1 litro e mezzo a 2 litri al giorno. Minerale, non gassata, a temperatura ambiente e lontano dai pasti. Può essere assunta in parte anche sotto forma di infuso di erbe ad azione depurativa.
  2. Privilegiare i cibi ricchi di fibre: frutta, verdura, cereali integrali. Mangiare almeno 2 frutti nella giornata. Al mattino e lontano dai pasti. Durante i due pasti principali mangiare una buona razione di verdure, alternandole, e almeno una volta al giorno crude.
  3. Mangiate una volta al giorno le proteine privilegiando nell’ordine il pesce magro (alici, sogliole, merluzzo, branzino, ecc.).
  4. Non eccedere con il sale. Il sale da cucina favorisce la ritenzione idrica, usarne piccole quantità e insaporire i piatti con aromi freschi a crudo (basilico, prezzemolo, rosmarino, timo, origano ecc.). Attenzione anche al “sale nascosto”: olive, patatine, acciughe, salumi, crackers salati e tutti gli snack.
  5. Abolire o limitare il più possibile gli alcolici, i fritti, il caffè, la panna, i salumi, il cioccolato, e tutti i dolciumi, la maionese, le salse confezionate, i dadi da cucina, tutti i cibi in scatola, sott’olio e le conserve.
  6. Cucinare in modo semplice: a vapore, al cartoccio, al forno, nelle pentole antiaderenti, e condire con olio d’oliva a crudo.
  7. Frazionare le calorie. Meglio consumare 5-6 piccoli pasti piuttosto che 2 o 3 pasti abbondanti. Con più pasti si stimola il metabolismo e non si affatica l’apparato digerente.
  8. Integrare l’alimentazione: con appositi supplementi alimentari a base di estratti di alghe per migliorare il metabolismo, di ananas e papaia per decongestionare e favorire il riassorbimento, di tarassaco e betulla per eliminare l’acqua stagnante dai tessuti, di gingko biloba e centella asiatica per tonificare i capillari e migliorare la circolazione. Acido lipoico per migliorare il metabolismo dei glutei e di grassi.
  9. Intolleranze alimentare: importante è evitare alcuni alimenti poco tollerati, perché spesso, la cellulite e la ritenzione idrica sono favoriti da cibi che causano una risposta negativa al nostro organismo.
  10. Evitare lo stress. Il destino del cibo è anche in relazione al tipo di ambiente interno che trova nell’organismo e quindi il suo utilizzo può essere condizionato da fattori esterni. Evitate situazioni che creano ansia e stress. Quando vi accingete a consumare il pasto evitate distrazioni a tavola, non leggete, non guardate la tv, se siete in compagnia evitate argomenti che possano procurarvi nervosismo. Mangiate soltanto!

Giuseppe Piccione,
laureato in scienze biologiche
dottorato di ricerca in chimica degli alimenti
esperto in qualità ed igiene degli alimenti e nutrizione umana.

LEUCEMIA LINFOBLASTICA ACUTA E LE POSSIBILI TERAPIE

LEUCEMIA LINFOBLASTICA ACUTA E LE POSSIBILI TERAPIE

La leucemia linfoblastica acuta (LLA) è una malattia oncoematologica che coinvolge il sangue e il midollo osseo, il tessuto che si trova all’interno delle ossa, da cui hanno origine le cellule del sangue periferico.

È una patologia rara, a rapida progressione. La malattia coinvolge le cellule ematologiche immature bloccandone la differenziazione.

Si verifica quando all’interno di una cellula del midollo osseo avviene una mutazione o un errore nella duplicazione del DNA che ne altera i normali processi di proliferazione e differenziazione. Nei pazienti con LLA, avviene un accumulo incontrollato di globuli bianchi immaturi e maligni (detti blasti) che toglie spazio alle cellule sane del midollo osseo, 2 compromettendo le normali funzioni ematopoietiche.

Incidenza

In Europa, vengono diagnosticati complessivamente ogni anno 7 mila casi di LLA. Esistono vari sottotipi di LLA, con un’incidenza specifica molto bassa. Per esempio, si stima che in Francia, Germania, Italia, Spagna e Regno Unito siano circa 600 gli adulti con LLA da precursori delle cellule B recidivante o refrattaria negativa per il cromosoma Philadelphia. I pazienti adulti con diagnosi di LLA sono spesso giovani adulti, con un’età media alla diagnosi di 44-55 anni.

Sintomi

In generale, la LLA si manifesta clinicamente con:

  • Sanguinamento delle gengive
  • Febbre
  • Infezioni frequenti
  • Sanguinamento dal naso, abbondante e frequente
  • Riscontro di linfonodi ingrossati, sul collo, sotto le ascelle, a livello addominale o all’inguine
  • Pallore
  • Respiro corto
  • Debolezza, affaticamento.

Fattori di rischio

Non si conoscono con certezza le cause che provocano le mutazioni del DNA responsabili della produzione di cellule linfoidi anomale e quindi della LLA, ma si sa che la malattia non è ereditaria.

I fattori che possono aumentare il rischio di LLA sono:

  • Precedenti terapie contro il cancro
  • Esposizione a radiazioni
  • Sindromi genetiche
  • Familiarità per LLA.

DIAGNOSI

I test e le procedure effettuabili per la diagnosi della LLA includono:

  • Analisi del sangue: le analisi del sangue potrebbero rivelare anomalie nell’emocromo come, ad esempio, un elevato numero di globuli bianchi, bassi livelli di globuli rossi e di piastrine. Le analisi del sangue mostrano anche la presenza di blasti (cellule immature) che si trovano solitamente nel midollo osseo, ma che non circolano nel sangue.
  • Analisi del midollo osseo: attraverso l’utilizzo di un ago, viene prelevato un campione del midollo osseo dall’osso del bacino, per ricercare le cellule leucemiche. I medici, in laboratorio, classificano le cellule ematopoietiche in base alla loro dimensione, alla forma e altre caratteristiche. Cercano anche di individuare alcuni cambiamenti tipici delle cellule patologiche e di determinare se le cellule leucemiche derivano da linfociti B o linfociti T.
  • Test di imaging: i test di imaging, come le radiografie del torace, la tomografia computerizzata (TC) o l’ecografia possono aiutare a stabilire se la malattia coinvolge il cervello, le ossa, i linfonodi o altre parti del corpo.
  • Analisi del liquido cefalorachidiano (liquor): attraverso una puntura lombare, si raccoglie un campione di liquor. Il campione viene analizzato alla ricerca dell’eventuale presenza di cellule leucemiche.

Ci sono vari sottotipi di LLA, la cui corretta identificazione è importante per una corretta diagnosi e fondamentale per la successiva scelta terapeutica.

Attraverso l’analisi dell’immunofenotipo delle cellule leucemiche è possibile distinguere i due gruppi principali di LLA: la LLA di origine B (la più comune) e la LLA di origine T.

È possibile inoltre classificare la LLA in base allo stadio maturativo a cui sono assimilabili i blasti leucemici e alla presenza o meno del cromosoma Philadelphia.

TRATTAMENTI

Solitamente, il trattamento della LLA si compone di più fasi di chemioterapia:

  • Fase d’induzione: lo scopo di questa prima fase della cura è quello di eliminare la maggior parte delle cellule leucemiche nel sangue e nel midollo osseo, e favorire il ripristino di cellule normali.
  • Fase di consolidamento: la fase di consolidamento è nota anche come “terapia post-remissione”. Questa fase del trattamento mira a distruggere le cellule leucemiche residue e non individuabili.
  • Fase di mantenimento: ha lo scopo di prevenire la ricomparsa di nuove cellule leucemiche e quindi la recidiva di malattia. Le dosi di chemioterapia somministrate in questa fase sono, solitamente, minori.
  • Profilassi del Sistema Nervoso Centrale: i pazienti con LLA vengono sottoposti a trattamenti in grado di eliminare l’eventuale presenza di cellule leucemiche nel sistema nervoso centrale, durante tutte le fasi della terapia. Per questo tipo di trattamento, vengono iniettati farmaci chemioterapici direttamente nel canale spinale con lo scopo di uccidere le cellule leucemiche che non vengono raggiunte in questa sede dai normali farmaci chemioterapici assunti per via orale, iniettati sottopelle (per via sottocutanea) o via endovenosa.

Circa l’11% dei pazienti non risponde alla cura, e soffre della cosiddetta leucemia refrattaria. Circa il 60% dei pazienti affetti da LLA va incontro invece a ricaduta dopo aver inizialmente risposto al trattamento. Per i pazienti adulti con LLA, la probabilità di sopravvivenza a cinque anni, dopo la prima ricaduta, è del 7%. La mortalità è quindi altissima.

In relazione alla severità del quadro clinico e all’eventuale progressione della malattia, le cure della LLA possono durare due o tre anni, e prevedono:

  • Chemioterapia: ovvero farmaci che uccidono le cellule leucemiche e, solitamente, ciò avviene durante la fase di induzione sia nei bambini che negli adulti; può essere anche utilizzata durante la fase di consolidamento e mantenimento.
  • Terapia mirata: farmaci che colpiscono specificamente alcune anomalie delle cellule leucemiche, che sono alla base della loro sopravvivenza e proliferazione illimitata.
  • Radioterapia: utilizzo di radiazioni, che uccidono le cellule tumorali.
  • Trapianto di cellule staminali: può essere utilizzato durante la terapia di consolidamento nei pazienti a rischio di ricaduta per ristabilire la presenza di cellule staminali sane, che sostituiscano quelle tumorali presenti nel midollo osseo e instaurare una risposta immunologica contro la leucemia.
  • Sperimentazioni cliniche: testano l’efficacia delle nuove cure per la leucemia o quella delle terapie esistenti. Le sperimentazioni cliniche danno una possibilità ai pazienti di essere trattati con farmaci innovativi, per i quali sono ancora in corso di valutazione i rischi e i benefici. I pazienti discutono i potenziali rischi e benefici con il loro medico, prima di firmare un consenso informato per essere inseriti all’interno della sperimentazione clinica.

Lo scopo della cura è la remissione completa (RC). La remissione avviene quando non ci sono più evidenze di LLA e sia l’emocromo che le cellule del midollo osseo del paziente ritornano nella norma. Nella LLA, la remissione è spesso definita da un numero di blasti leucemici nel midollo osseo inferiore al 5%.

Test MRD

Con il raggiungimento della RC, potrebbe essere presente, nell’organismo, un piccolo numero di cellule leucemiche non visibili. Si definisce residuo minimo di malattia (MRD): uno stato in cui la leucemia non è visibile al microscopio, ma solo attraverso tecniche più sensibili in grado di individuare le cellule maligne residue.

Il test MRD può essere utilizzato per valutare la prognosi dei pazienti con LLA e per guidare le decisioni sull’iter di trattamento. La valutazione della MRD ha acquisito un valore importante nei protocolli di cura europei per i pazienti con LLA, sulla base del suo alto valore prognostico.

“Lo strumento terapeutico di riferimento rimane la chemioterapia, che si basa su farmaci che sono stati sviluppati a partire dagli anni ’60 – precisa Alessandro Rambaldi, Direttore Unità Strutturale Complessa di Ematologia, Azienda ASST Papa Giovanni XXIII Bergamo –. Nel corso degli anni abbiamo imparato ad usare sempre meglio questi farmaci definendo le combinazioni tra i chemioterapici, la loro sequenza, e soprattutto la dose di utilizzo e questo ha portato già grandi risultati: i bambini trattati negli anni ’70 con gli stessi farmaci che utilizziamo oggi guarivano nel 20% dei casi, oggi nel 90% dei casi. Nel paziente adulto il progresso è stato meno significativo, ma comunque molto rilevante. Il secondo presidio terapeutico disponibile è il trapianto di midollo osseo allogenico che è una modalità estremamente efficace perché si basa sulla somministrazione di una dose massimale di chemioterapia eventualmente associata anche alla radioterapia. Questa combinazione da un lato è in grado di ottenere una significativa eradicazione della malattia, ma al tempo stesso provoca un danno irreversibile anche alle cellule sane che non sono più in grado di produrre sangue. Per tale ragione questa funzione viene assunta da cellule staminali emopoietiche sane ottenute da un donatore compatibile. Purtroppo, accanto all’effetto terapeutico del trapianto, il sistema immunitario del donatore può talvolta aggredire non soltanto le cellule leucemiche, ma anche quelle sane del paziente (quali quelle della pelle, dell’intestino, del fegato e determinare una malattia che si chiama ‘malattia del trapianto contro l’ospite’, Graft Versus Host Disease, GvHD). Questa complicanza interessa circa il 25% dei pazienti e si presenta con delle manifestazioni acute o croniche che possono compromettere la qualità di vita del paziente e qualche volta la vita stessa. Per tutte queste ragioni, il trapianto di midollo osseo allogenico viene offerto solo ai pazienti per i quali si ha la certezza o almeno un’alta probabilità che la chemioterapia da sola non possa portare a guarigione.

Grazie al trapianto e a tanta ricerca di laboratorio, nel corso degli ultimi 35 anni abbiamo capito che una terapia immunologica contro la leucemia era possibile ed estremamente efficace. Dobbiamo sfruttare il sistema immunitario per curare in modo definitivo questa malattia senza però causare molte delle tossicità prima descritte. Tra questi nuovi trattamenti va ricordato lo sviluppo di tecniche di terapia genica, grazie alle quali i linfociti T vengono geneticamente modificati per riconoscere bersagli espressi sulla superficie delle cellule leucemiche o lo sviluppo di nuovi anticorpi, che ottengono lo stesso risultato attivando i linfociti stessi del paziente.

Da questi nuovi trattamenti innovativi più efficaci e meno tossici rispetto alla chemioterapia e al trapianto di midollo osseo ci aspettiamo nuovi decisivi progressi nella terapia di questa malattia”.

Sulle cure innovative risponde Robin Foà Direttore Ematologia, Policlinico Umberto I, Sapienza Università di Roma

 

Cosa sono gli anticorpi bispecifici? È ora disponibile anche in Italia blinatumomab, primo anticorpo bispecifico per il trattamento della leucemia acuta linfoblastica. Ci può spiegare in cosa consiste il suo innovativo meccanismo d’azione?

Il blinatumomab è un anticorpo monoclonale definito bispecifico perché il bersaglio è rappresentato da due antigeni espressi sulla superficie delle cellule, non uno come di solito avviene per gli anticorpi monoclonali. Uno è un antigene chiamato CD19 che è presente sulla superficie delle cellule di tutte le leucemie acute linfoblastiche della serie B, ma il meccanismo d’azione è mediato invece dall’altro antigene, il CD3, che è presente sulla superficie dei linfociti T del paziente. È una forma di immunoterapia perché di fatto vengono attivati/armati i linfociti T del paziente a riconoscere le cellule leucemiche CD19+. L’innovazione sta nel modello di azione; il blinatumomab è il primo anticorpo monoclonale bispecifico che è arrivato nella clinica ed è stato recentemente approvato prima da FDA e poi da EMA, e ora anche da AIFA.

La terapia con blinatumomab è quindi una forma di immunoterapia: viene attivato il sistema immunitario del paziente a riconoscere le cellule malate e quindi a cercare di eliminarle. È il primo anticorpo bispecifico approvato in oncologia e rappresenta una strategia terapeutica rivoluzionaria per una patologia molto grave. L’approvazione è per pazienti adulti che abbiano una leucemia acuta linfoblastica di tipo B, che sia Philadelphia (cioè che non porti questa alterazione citogenetica), e che siano recidivati o resistenti ad una o più linee di terapia. Quindi non si usa in prima linea ma nelle recidive di malattia.

Quali sono le evidenze scientifiche di efficacia di blinatumomab nel trattamento della leucemia linfoblastica acuta, in particolare rispetto alla chemioterapia, considerata finora il trattamento standard per questa patologia?

Sono stati condotti negli anni molti studi prima di arrivare allo studio TOWER randomizzato, che rappresenta l’ultimo anello di una lunga catena di studi clinici di fase I e II che sono stati completati in precedenza e che hanno dimostrato l’efficacia di questo anticorpo bispecifico in pazienti con leucemia linfoblastica acuta in recidiva o resistente alla terapia standard. I risultati incoraggianti hanno portato al disegno dello studio randomizzato per pazienti che hanno questo tipo di malattia, negativi per il cromosoma Philadelphia. I pazienti sono stati randomizzati alla cieca a ricevere lo standard of care, che è sempre una combinazione chemioterapica, oppure questo anticorpo monoclonale usato da solo. I risultati dello studio sono stati rilevanti perché hanno dimostrato che, rispetto alla terapia convenzionale, il blinatumomab ha permesso di ottenere percentuali di remissione completa di malattia significativamente più elevate e ha praticamente raddoppiato la sopravvivenza rispetto alla chemioterapia standard. Risultati quindi molto importanti, che non si erano mai osservati con un singolo farmaco. Questi risultati sono stati recentemente pubblicati sulla più prestigiosa rivista di medicina, il New England Journal of Medicine.

Per quanto tempo e con quali modalità viene somministrato blinatumomab ai pazienti?

Di solito si somministrano due cicli ma si può arrivare anche a cinque cicli. Le risposte maggiori si hanno dopo il primo e il secondo ciclo. Il trattamento consiste in una terapia infusionale continua, per 28 giorni, seguita da un periodo di intervallo di due settimane. Il paziente viene ricoverato all’inizio della terapia e successivamente la somministrazione del farmaco può proseguire a domicilio utilizzando una pompa da infusione.

INTEGRATORI, RICETTE STELLATE  E COTTURE INNOVATIVE PER FAVORIRE IL CONTROLLO DEL COLESTEROLO

INTEGRATORI, RICETTE STELLATE E COTTURE INNOVATIVE PER FAVORIRE IL CONTROLLO DEL COLESTEROLO

Attenzione ai livelli elevati di colesterolo.

Alimentiamici” e combinazioni intelligenti, per piatti gustosi e benefici per il cuore.

Alleggerire i condimenti con cotture semplici e rivoluzionarie, che riducano anche i tempi di preparazione.

Attività fisica costante e in misura personalizzata.

Associare un integratore alimentare per l’apporto quotidiano dei nutrienti che aiutano il cuore, favorendo il controllo del colesterolo e del metabolismo glucidico.

Sono le 5 “A” della prevenzione sostenibile, un approccio innovativo attraverso piccoli cambiamenti nello stile di vita, di cui sono parte integrante un’alimentazione equilibrata e l’uso appropriato degli integratori alimentari: a promuoverlo è “LopiLife, nutriamo la salute del cuore”.

La campagna si basa sulle nuove Linee Guida della Società Europea dell’Aterosclerosi e della Società Europea di Cardiologia che, nei soggetti con livelli di colesterolo borderline e che non necessitano di trattamento farmacologico, oltre a raccomandare modifiche nello stile di vita e nell’alimentazione, suggeriscono di “nutrire” la salute del cuore con integratori alimentari in grado di agire favorevolmente su alcuni fattori di rischio cardiovascolare, grazie a principi attivi naturali.

A queste caratteristiche risponde il nuovo integratore alimentare LopiGLIK, che riunisce in un’unica formulazione tre principi attivi naturali con efficacia scientificamente provata

Ogni compressa di LopiGLIK contiene:

  • Berberis Aristata: contribuisce alla regolare funzionalità dell’apparato cardiovascolare. La berberina è una sostanza naturale, estratta dalla corteccia di Berberis aristata, arbusto spinoso originario dell’Himalaya e del Nepal appartenente alla famiglia delle Berberidaceae.

La berberina svolge diverse attività farmacologiche e contribuisce alla normale regolarità cardiovascolare.

  • Riso rosso fermentato: favorisce il controllo del colesterolo nel sangue ad integrazione di una dieta adeguata

Il riso rosso fermentato è un antico componente dietetico cinese. È prodotto dalla fermentazione del riso per opera del Monascus purpureus, micete che produce diverse sostanze tra cui un pigmento rosso (da cui il nome di “lievito rosso”), e sostanze che modificano i grassi presenti nel sangue. Queste ultime sono state identificate chimicamente come “monacoline”, tra cui la monacolina K, che hanno un ruolo nella gestione dei livelli di colesterolo (Yang 2012, Shamim 2013).

  • Morus alba: favorisce il metabolismo degli zuccheri. Il gelso bianco o moro bianco o Morus alba, è un albero deciduo che appartiene alla famiglia delle Moraceae, originario della Cina settentrionale e della Corea.

L’efficacia di LopiGLIK è stata valutata in uno studio scientifico (Trimarco V. et al. 2015). Rispetto al prodotto nutraceutico per il controllo del colesterolo leader di mercato si è osservato nei 23 soggetti trattati una superiore riduzione del colesterolo totale e LDL (target LDL raggiunto nel 56,5% dei pazienti contro il 21,7%) e presenta un’efficacia sovrapponibile per i trigliceridi e aumento del colesterolo buono HDL.

Ma insieme all’uso quotidiano di un integratore quali altre regole promuove LopiLife?

Una regola sostenibile è l’introduzione nella dieta di alimenti amici che consentano di mantenere stabili gli ormoni, principalmente l’insulina prodotta dal pancreas; inoltre, è importante l’attenzione alle combinazioni intelligenti e funzionali tra gli alimenti, valutando il loro effetto sui diversi organi.

“Per stare bene e guadagnare salute più a lungo possibile affrontando una sana longevità, dobbiamo imparare a riprogrammare i nostri ormoni a tavola: il primo passo è ridurre l’insulino-resistenza, il secondo passo è saper combinare gli alimenti in modo funzionale. È sbagliato sia mangiare troppi zuccheri, sia troppe proteine – afferma Sara Farnetti, Specialista in Medicina Interna e malattie del metabolismo -. La cosa giusta da fare è mantenere bassa l’insulina a ogni pasto, assumendo alimenti amici, come il cioccolato, le mandorle, e sostanze estratte dalle piante, come il cardo e il gelso bianco. Gli integratori danno maggiore efficacia benefica all’azione funzionale dei cibi che assumiamo”.

Cottura a vapore, pentola a pressione, cottura a basse temperature: il segreto dell’innovazione amica del cuore in cucina sono anche le tecniche di cottura semplici e rivoluzionarie, che possono limitare a 15-20 minuti i tempi di preparazione, e che nella campagna si esprimeranno attraverso le ricette d’autore dello chef stellato Luciano Monosilio.

“La cucina stellata è frutto di una grande ricerca di ingredienti, di alchimie che legano i cibi e di cotture che rispettano le materie prime. Lavorando su tutti questi fronti, si possono creare dei piatti che soddisfino il palato e, allo stesso tempo, che siano amici del cuore – afferma Luciano Monosilio -. Il segreto è utilizzare ingredienti freschi e di qualità, e cucinarli con tecniche e strumenti che non ne distruggano il valore nutritivo e diminuendo l’utilizzo di grassi animali e oli vegetali saturi in favore di erbe e spezie. Da questo punto di vista, un aiuto a una sana alimentazione può venire anche dai metodi di cottura semplici e rivoluzionari, come la cottura a bassa temperatura, quella a vapore o la pentola a pressione, che permettono di mantenere inalterate le proprietà organolettiche e nutritive degli alimenti, limitando l’uso di condimento e di grassi”.

Cos’è il colesterolo
Il colesterolo è un grasso prodotto dal fegato ed è presente in tutte le cellule dell’organismo. Serve per la sintesi di alcuni ormoni, gioca un ruolo fondamentale nella produzione della vitamina D, è un costituente delle membrane cellulari e di vari tessuti.

La maggior parte del colesterolo circolante viene sintetizzato all’interno del nostro organismo, e solo una piccola quota è introdotta attraverso l’alimentazione. Una persona adulta sintetizza circa 600-1000 mg di colesterolo al giorno. Alla quota di colesterolo endogeno, prodotto cioè dall’organismo, che equivale a circa il 70-80% di tutto il colesterolo, si affianca quella assunta dall’esterno (colesterolo esogeno).

Una dieta equilibrata apporta, in genere, da 200 a 300 mg di colesterolo al giorno. Il colesterolo può essere introdotto dall’esterno con alimenti quali i cibi ricchi di grassi animali, come carne, burro, salumi, formaggi, tuorlo dell’uovo. Il colesterolo viene introdotto anche attraverso i grassi insaturi che si ottengono aggiungendo idrogeno agli oli vegetali, tipici di molte fritture e anche delle margarine vegetali e dei grassi usati in pasticceria. I cibi di origine vegetale (frutta, verdura, cereali) non contengono colesterolo.

 Perché è pericoloso
In quantità eccessive, il colesterolo diventa un formidabile nemico per l’intero apparato cardiovascolare. Infatti, il colesterolo in eccesso tende ad accumularsi sulle pareti delle arterie e nel tempo può formare una placca che restringe l’arteria e riduce il flusso di sangue. O, addirittura, quando arriva a ostruire totalmente l’arteria interessata, interrompere irreversibilmente il flusso sanguigno. Quando questo fenomeno interessa le coronarie, che portano il sangue al cuore, aumenta il pericolo di infarto, soprattutto se sono presenti altri fattori di rischio. Tale processo può, comunque, colpire qualsiasi distretto corporeo, con danni correlati all’organo interessato, frequentemente cervello (ictus) e reni, con perdita della funzionalità.

Colesterolo buono e cattivo
Il colesterolo, in quanto tale, non potrebbe circolare liberamente nel sangue. Si lega, quindi, a speciali “trasportatori”, le lipoproteine. Queste non sono tutte uguali, ma sono più o meno dense e, proprio in base alla loro densità, tendono ad uscire dai vasi o a rimanere al loro interno facilitando la formazione delle placche e, quindi, delle lesioni. Da qui la definizione di colesterolo “buono” e “cattivo”.

HDL – Il colesterolo buono
È definito così perché si lega alle HDL (High Density Lipoprotein, o lipoproteine ad alta densità), che hanno il compito di trasportarlo fuori dai vasi sanguigni verso il fegato, dove viene eliminato. Le HDL sono quindi una sorta di “spazzino” dei vasi sanguigni ed hanno azione protettiva per le arterie.

LDL – Il colesterolo cattivo
Viaggia con le LDL (Low Density Lipoprotein, o lipoproteine a bassa densità) che lo trasportano ai vari tessuti lasciando che si accumuli nei vasi sanguigni dove ci sono lesioni. Si forma così la placca dell’aterosclerosi. Elevati valori di trigliceridi nel sangue possono favorirne la sintesi e quindi vanno anch’essi tenuti sotto controllo.

Il valore del colesterolo totale è “desiderabile” quando non supera i 200 mg/dL.
Il colesterolo LDL o cattivo non dovrebbe superare i 135 mg/dL nella persona sana ma nei soggetti con fattori di rischio cardiovascolari (ipertensione, diabete, obesità, fumo) dovrebbero essere inferiori a 100 mg/dL e inferiori a 70 mg/dL nei soggetti che hanno già avuto eventi cardiovascolari.

Il colesterolo HDL o buono non deve mai scendere sotto i 30-40 mg/dL.

La glicemia
La glicemia è la concentrazione di glucosio (zucchero) nel sangue. Il glucosio è la forma in cui devono essere trasformati gli altri zuccheri per poter essere utilizzati dal nostro organismo ed è quindi l’unico zucchero presente nel nostro sangue. L’assorbimento del glucosio è favorito dall’insulina, un ormone rilasciato dal pancreas. Una quantità eccessiva di zucchero causa un superlavoro per il pancreas per produrre l’insulina necessaria a normalizzare la concentrazione ematica di glucosio, ponendo l’organismo in una situazione di squilibrio e quindi di sofferenza. Nel tempo il pancreas si “affatica” e le cellule diventano meno sensibili all’insulina, per cui ne occorrono quantitativi maggiori per assicurare una normale concentrazione di glucosio nel sangue, compresa tra i 65-110 mg/dL. Un valore compreso tra i 110-125 mg/dL suggerisce il sospetto di alterata glicemia a digiuno (IFG). Mentre valori superiori a 125 mg/dL permettono di fare diagnosi di diabete qualora tale condizione si verificasse nuovamente ad una seconda misurazione.

“Dopo i 40 anni è importante tenere sotto controllo il colesterolo perché è uno dei segni della sindrome metabolica, una condizione clinica nella quale interventi diagnostici e terapeutici, nutrizionali e nutraceutici tempestivi influenzano positivamente l’aspettativa di vita e riducono notevolmente la spesa sanitaria – precisa Sara Farnetti –. La sindrome metabolica aumenta l’incidenza di cancro, diabete, malattie cardiovascolari, malattie del sistema nervoso centrale, osteoporosi. Questa sindrome è “silenziosa”, il paziente spesso non avverte disturbi particolari, e spesso la scopre per puro caso effettuando alcuni esami del sangue. In realtà, la sindrome metabolica è ben evidente perché è sempre presente: l’aumento della circonferenza della vita che documenta una obesità localizzata nella zona addominale. Nello specifico, le misure considerate a rischio sono superiori ai 94 centimetri per gli uomini e 80 per le donne. Per la diagnosi di sindrome metabolica devono essere anche presenti due dei seguenti criteri:

  • aumento dei trigliceridi nel sangue (oltre 150 mg/dl);
  • riduzione del colesterolo HDL “buono” al di sotto dei 40 mg/dl nelle donne e dei 50 mg/dl negli uomini;
  • pressione alta (valori superiori agli 85 mmHg di minima e ai 130 mmHg di massima);
  • glicemia elevata a digiuno (valori superiori ai 100 mg/dl) o diagnosi di diabete.

Da tutto questo è facile intuire che non è importante il colesterolo di per sé come malattia ma in quanto considerato e inquadrato all’interno della sindrome metabolica”.

“IL SOLE PER AMICO” DEI BAMBINI

“IL SOLE PER AMICO” DEI BAMBINI

Da uno studio epidemiologico condotto su oltre 12 mila alunni delle scuole elementari emerge che il 25,5% dei bambini italiani ha riportato almeno una scottatura solare nel corso della vita, con una maggiore incidenza tra gli alunni del Sud e le isole (28,2%) e il 9,4% dei bambini almeno una scottatura nei dodici mesi prima della rilevazione. Circa l’85% del campione utilizza qualche volta o sempre creme solari, il 73,5% il cappellino, il 73,6% la maglietta, il 54,2% gli occhiali da sole.

“Il Sole per amico” è la più grande campagna di prevenzione primaria sul melanoma mai realizzata in Italia. E sono i bambini i destinatari principali dell’iniziativa di sensibilizzazione promossa da IMI in quanto fascia di popolazione più a rischio per il melanoma: le scottature prese nell’infanzia sono un fattore di rischio perché la pelle “memorizza” il danno ricevuto e può innescare il processo patologico anche a diversi anni di distanza.

La campagna è stata promossa a partire dal 2015 da IMI – Intergruppo Melanoma Italiano, con la collaborazione del Ministero dell’Istruzione, il patrocinio del Ministero della Salute e dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM).

“Il Sole per amico” ha raggiunto i cittadini attraverso il web, nelle stazioni ferroviarie, sulle spiagge, è stato un progetto educazionale sulla corretta esposizione al sole per gli alunni delle scuole primarie e le loro famiglie, che nell’arco di due anni scolastici ha coinvolto 300 scuole di 11 Regioni, circa 50.000 alunni, oltre 4.000 docenti e ha coinvolto migliaia di bambini nella realizzazione di disegni, temi, recite ispirati ai contenuti della campagna.

Apprendere da piccoli le regole che servono a esporsi con giudizio al sole e a difendere la pelle, significa ridurre il rischio di tumori cutanei per tutta la vita. “Il concetto più importante trasmesso ai bambini delle scuole primarie riguarda l’importanza di seguire le regole della fotoprotezione, tra le quali le principali sono evitare le esposizioni eccessive e le conseguenti scottature soprattutto se si ha un fototipo 1 o 2, esporsi sempre gradualmente, evitare di farlo nelle ore centrali della giornata, utilizzare indumenti quali cappello con visiera, camicia o maglietta e occhiali da sole, usare creme solari adeguate al proprio fototipo”, commenta Ignazio Stanganelli, Referente per la Dermatologia di IMI e Presidente eletto IMI, Professore Associato all’Università degli Studi di Parma e Responsabile del Centro di Oncologia Dermatologica IRST Romagna.

“La campagna e il progetto educazionale ‘Il Sole per amico’ sono stati voluti da IMI per contrastare la diffusione del melanoma, che sta diventando sempre più frequente tra i giovani adulti di 20-30 anni di età, e ormai rappresenta il secondo tumore per incidenza nella popolazione maschile e il terzo in quella femminile al di sotto dei 50 anni – afferma Giuseppe Palmieri, Presidente IMI (Intergruppo Melanoma Italiano) e Responsabile Unità di Genetica dei Tumori, Istituto di Chimica Biomolecolare, ICB-CNR Sassari – insieme ad altre iniziative di sensibilizzazione, questa campagna potrà avere un impatto positivo a lungo termine nel ridurre l’incidenza del melanoma e, insieme al miglioramento della diagnosi precoce, contribuire alla diminuzione della mortalità”.

Ideatrice della campagna è Paola Queirolo Presidente Uscente IMI, UOC Oncologia Medica all’IRCCS-AOU San Martino-IST di Genova. L’iniziativa nasce dalla consapevolezza dell’importanza di far crescere l’attenzione dell’opinione pubblica sul melanoma e sui rischi legati a una non corretta esposizione, coinvolgendo in particolare i bambini delle scuole elementari e ha insegnato loro le regole fondamentali per l’esposizione al sole in modo da ridurre il rischio che sviluppino melanoma in età adulta”.

IL MELANOMA
Il melanoma è un tumore molto aggressivo che deriva dalla trasformazione maligna dei melanociti, le cellule che determinano il colore della pelle. Il melanoma può insorgere sulla pelle apparentemente sana o dalla modificazione di un neo preesistente.
La frequenza di questo tumore è in netto aumento in tutto il mondo: negli ultimi 15 anni il numero dei casi di melanoma è praticamente raddoppiato. Ogni anno nel mondo si registrano circa 100.000 nuovi casi. Quando il melanoma viene diagnosticato precocemente è generalmente una malattia curabile. Tuttavia, se non individuato in tempo e non trattato, il melanoma può diffondersi ad altre parti dell’organismo, come fegato, polmoni, ossa e cervello. Un melanoma che si è diffuso ad altri organi è chiamato melanoma metastatico: questo tipo di tumore della pelle ha una prognosi non favorevole. Sebbene il melanoma metastatico sia relativamente raro, può avere un effetto devastante sui pazienti e i familiari, specialmente perché le persone colpite sono spesso in giovane età. L’età media dei pazienti con diagnosi di melanoma è di soli 50 anni e il 20% dei casi viene riscontrato in pazienti di età compresa tra 15 e 39 anni.

Perché si presenta il melanoma?

Il melanoma insorge a causa della crescita e della proliferazione incontrollata dei “melanociti”, le cellule che producono la “melanina”, il pigmento che dà colore a pelle, occhi, capelli e protegge la cute dai raggi ultravioletti (UV) della luce solare. Un’esposizione eccessiva ai raggi UV può provocare mutazioni nei melanociti e rappresenta una delle cause principali di tumori cutanei come il melanoma.

Quali sono i soggetti a rischio di melanoma?

Le persone più a rischio sono quelle che hanno una o più delle seguenti caratteristiche:

  • modificazione evidente e progressiva di un neo;
  • comparsa di un nuovo neo in età adulta;
  • soggetti già trattati per melanoma;
  • familiarità per melanoma (altri casi di melanoma in famiglia);
  • uno o più nei di diametro superiore a 5mm e di forma irregolare;
  • presenza di uno o più nei congeniti grandi;
  • elevato numero di nei;
  • capelli biondo-rossi, occhi chiari, carnagione particolarmente bianca ed estremamente sensibile al sole;
  • presenza di lentiggini;
  • frequenti scottature durante l’infanzia e l’adolescenza;
  • frequente esposizione a radiazioni ultraviolette artificiali di lampade abbronzanti o lettini solari.

TIPI DI MELANOMA
Esistono quattro tipi principali di melanoma della pelle:

  • il melanoma piano o sottile rappresenta la forma più frequente (70%); tende a crescere verso l’esterno piuttosto che verso l’interno;
  • il melanoma cupoliforme o nodulare è una variante di melanoma a rapida evoluzione e con alto rischio di progressione che tende a comparire a un’età più avanzata. Rappresenta il 10-15% di tutti i melanomi. È la forma a più rapida crescita: se non trattata, comincia a svilupparsi verso l’interno e può penetrare nella cute e diffondersi ad altre aree dell’organismo;
  • la lentigo maligna (melanoma in situ) è una lesione a lenta evoluzione che si manifesta, generalmente nei soggetti anziani sulla pelle del viso, come una macchia piatta, non palpabile, marrone, molto liscia, con perdita del normale profilo cutaneo. Generalmente ha un ritmo di crescita lento (anni) e raramente si diffonde ad altre parti dell’organismo. Tuttavia, se si diffonde, assume le stesse caratteristiche del melanoma metastatico;
  • il melanoma acrale-lentigginoso compare invece nelle zone acrali (palmo della mano, pianta del piede) rappresenta il 5% di tutti i melanomi ed è l’unica forma che può insorgere in tutti i fototipi, anche nei soggetti di pelle scura.

TERAPIA
In caso di sospetto melanoma si procede alla biopsia escissionale, ovvero la completa asportazione della neoformazione, e all’esecuzione dell’esame istologico. Se il melanoma è in situ si esegue un ampliamento chirurgico a distanza di 0.5 cm, se ha uno spessore (detto di Breslow) inferiore a 2 mm si esegue un ampliamento chirurgico a distanza di 1 cm dal margine della cicatrice. Inoltre, se lo spessore è superiore a 0.75 mm, oltre all’ampliamento chirurgico, si esegue anche la metodica del linfonodo sentinella per identificare il linfonodo che per primo drena dalla sede del melanoma e valutare l’eventuale diffusione del tumore.

Nello stadio precoce, il melanoma può essere spesso curato chirurgicamente, mentre negli stadi più avanzati può essere più difficile da trattare.

Gli standard di trattamento includono:

  • Intervento chirurgico
  • Immunoterapia
  • Terapia mirata
  • Chemioterapia
  • Radioterapia

Per i melanomi ad alto rischio di progressione nuove speranze vengono dalle terapie a bersaglio molecolare (target therapy) che inibiscono specifiche mutazioni geniche del tumore come la mutazione BRAF che si trova nel 50% dei melanomi in stadio avanzato. Un’importante novità è rappresentata dagli anticorpi immunomodulanti che hanno dimostrato di prolungare la sopravvivenza a lungo termine in pazienti con malattia avanzata.

DIMAGRIRE GRADUALMENTE: I CONSIGLI DEL NUTRIZIONISTA

DIMAGRIRE GRADUALMENTE: I CONSIGLI DEL NUTRIZIONISTA

Niente è più sbagliato del famoso slogan “7 chili in 7 giorni”, e mai lasciarsi attirare, poi, da testimonianze entusiastiche di persone che hanno perso 20 Kg in due mesi! Dopo un anno probabilmente avranno recuperato tutto, addirittura con gli interessi.

Il meccanismo è il seguente: una dieta ipocalorica troppo stretta finisce per bruciare i muscoli, come in una sorta di autocannibalismo. Una persona con un’esigenza di 1800 kcal. al giorno che riduce le calorie a 800 ha un deficit calorico di circa 1000 calorie e, per colmare questo deficit, il suo organismo ricava almeno 400 calorie distruggendo tessuto muscolare. Considerando 4 calorie per grammo di proteine, significa perdere circa 100g di proteine muscolari al giorno, cioè circa ½ kg. di massa muscolare, (mediamente formata da un 20% di proteine, 2% di glicogeno e per il resto da acqua). Seguendo questo ritmo si perderanno 5Kg di muscoli in 10 giorni. Le altre 600 calorie, attaccando i grassi (1Kg di tessuto adiposo = 7500 calorie), causerebbero un calo di circa un altro chilo, così avremo il famoso calo di 6Kg in dieci giorni, dei quali meno di 1Kg è costituito da grasso, mentre gli altri 5 sono muscoli. Se si perdono muscoli, però il metabolismo si abbassa, perché i muscoli bruciano, come combustibile preferenziale, grassi e carboidrati. Quindi noi ingrasseremo di nuovo, e più facilmente.

Ma non è finita qui. Infatti quelle 600 calorie di deficit giornaliero a carico dei grassi causano una perdita di grasso (560g alla settimana) troppo veloce innescando dei meccanismi di difesa nell’organismo che cerca di conservare le sue preziose riserve energetiche. Viene aumentata così la produzione di un enzima, la lipoproteinlipasi, che convoglia e imprigiona i grassi, presenti nel torrente circolatorio, dentro le cellule adipose, impedendo al corpo di usarli per coprire il deficit energetico. Il nostro organismo, di conseguenza, finisce per bruciare sempre più tessuto muscolare, e questo lo affatica, lo ingolfa e rallenta ulteriormente il metabolismo. È il circolo vizioso della così detta sindrome yo-yo, il famoso calo e poi il recupero di peso con gli interessi: quando si riprende a mangiare un po’ di più, ci si ritrova con tanta di quella lipoproteinlipasi che in poco tempo si riacquista tutto il grasso perso faticosamente e qualcosa in più.

Per evitare l’insorgere di questo meccanismo non bisogna perdere più di 250g di grasso alla settimana, il che equivale a un deficit calorico di circa 250 calorie al giorno. Esiste, poi, un altro motivo per non perdere peso troppo in fretta. C’è un livello di grasso stabilito geneticamente: ognuno di noi ha un suo livello abituale, in relazione al proprio stile di vita. Se questo livello di grasso viene mantenuto per un anno o più, il corpo sviluppa i capillari, i nervi periferici, il sistema connettivo, gli enzimi necessari per conservarlo. Praticamente il corpo si abitua a quel peso e tende a mantenerlo: è il cosiddetto “FAT POINT”. Quindi è importantissimo perdere grasso lentamente, e soprattutto mantenere il nuovo livello di grasso per almeno un anno, in maniera da riassestare il proprio FAT POINT.

Giuseppe Piccione,
laureato in scienze biologiche
dottorato di ricerca in chimica degli alimenti
esperto in qualità ed igiene degli alimenti e nutrizione umana.

SBARCA ORA NEGLI STATES UNA NUOVA FORMULAZIONE ITALIANA PER IL TRATTAMENTO DELL’IPOTIROIDISMO

SBARCA ORA NEGLI STATES UNA NUOVA FORMULAZIONE ITALIANA PER IL TRATTAMENTO DELL’IPOTIROIDISMO

È presente sul mercato italiano dal 2012. È tra i tre farmaci più prescritti al mondo. È sulla lista dei farmaci essenziali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e tra i più efficaci, sicuri e fondamentali. Si tratta della Levotiroxina liquida, la forma sintetica dell’ormone tiroideo, tiroxina (T4) impiegata in tutti i casi di deficit dell’ormone.

“Per diversi anni le compresse di tiroxina declinata in due unici dosaggi, è stato l’unico farmaco presente sul mercato italiano e non poche difficoltà si sono avute in quel 30-40% dei casi dove non si riusciva ad ottenere un compenso adeguato per problemi correlati con l’assorbimento a causa di gastriti, celiachia, intolleranze al lattosio e assunzione di altri farmaci interferenti e per quanti non riuscivano a rispettare l’assoluta necessità di assumere il farmaco a digiuno e privarsi dell’immediata assunzione del caffè, per il quale erano costretti ad aspettare un minimo di mezz’ora – spiega Vincenzo Toscano, Presidente AME-Associazione Medici Endocrinologi –. Pazienti costretti a sottrazione di sonno, più frequentemente donne e quindi, specialmente in post-menopausa, più soggette a disturbi del sonno. Sviluppare un preparato che permettesse di superare tutti questi inconvenienti e permettere il raggiungimento del target di compenso (TSH) nei limiti previsti è stato l’obiettivo di IBSA. Molti studi, la maggior parte da autori italiani, hanno dimostrato che con la levotiroxina liquida è possibile evitare l’attesa del caffè. Molti farmaci di uso frequente, come gli antiacidi o gli inibitori di pompa protonica, non sembrano interferire con l’assorbimento. Non si può poi non considerare il vantaggio che il preparato di tiroxina liquida offre per il trattamento dei pazienti che non possono deglutire o che sono alimentati con sondino. E i vantaggi per i bambini con ipotiroidismo congenito e per pazienti dopo chirurgia bariatrica, dove il farmaco si è dimostrato efficace nel raggiungimento del target. Possiamo quindi dire, ancora una volta, che la ricerca italiana in ambito tiroideo si è distinta per aver ottemperato alle esigenze dei pazienti nell’ottica di migliorare la qualità di vita”.

L’FDA, l’agenzia regolatoria americana per i farmaci, autorizza all’immissione in commercio (NDA, New Drug Application) della levotiroxina in formulazione liquida per il trattamento dell’ipotiroidismo.

“E così, per una volta, il mondo farmacologico e il paradigma del regolatorio (prima FDA, poi EMA poi AIFA) si capovolge, perché questa volta la novità terapeutica dall’Italia sbarca negli States solo successivamente ad una larga e diffusa sperimentazione sul campo in Italia. È di qualche giorno fa la notizia dell’approvazione da parte anche dell’FDA per il mercato USA di questa formulazione liquida”, precisa Andrea Lenzi, Presidente SIE, Società Italiana di Endocrinologia.

UN POLIFENOLO NATURALE CONTRO IL VIRUS DELL’INFLUENZA

UN POLIFENOLO NATURALE CONTRO IL VIRUS DELL’INFLUENZA

Un semplice raffreddore, una più complicata rinosinusite, un’infezione respiratoria ricorrente e una forma allergica: queste alcune tra le malattie delle alte vie respiratorie che costituiscono le più frequenti patologie in età pediatrica.

“Che si parli di raffreddore, influenza, sinusiti o allergie il naso è sempre coinvolto – precisa Matteo Gelardi, Otorinolaringoiatra, Policlinico Universitario di Bari -. In particolare la mucosa nasale, chiamata così proprio perché produce il muco che rappresenta la prima barriera di difesa dagli agenti esterni quali batteri, virus, particolato atmosferico e pollini. La principale causa delle infezioni delle vie aeree è rappresentata dalla fisiologica immaturità immunologica del bambino. Nei primi 3 anni di vita esiste una difficoltà nella produzione anticorpale, soprattutto verso antigeni polisaccaridici. Questa scarsa efficienza delle risposte anticorpali è responsabile anche di una incompleta memoria immunologica con rischio di recidività della stessa infezione. Anche altri meccanismi di difesa sono immaturi; la riduzione della clearance mucociliare determina infatti un prolungamento della permanenza dei patogeni nelle mucose nasali e faringee facilitando l’infezione. Di fronte ad un’infezione delle alte vie aeree il primo quesito che si pone è sulla sua origine: sarà batterica o virale? È un circolo vizioso, conclude l’esperto, perché un’infezione virale determina modificazioni che favoriscono l’infezione batterica e può volgere a batterica se non trattata appropriatamente”.

Recenti pubblicazioni scientifiche hanno dimostrato che il resveratrolo, un polifenolo naturale prodotto dalle piante, ha l’effetto di inibire la replicazione di rhinovirus, virus dell’influenza e virus respiratorio sinciziale. Il resveratrolo è un polifenolo presente in vari tipi di frutta e verdura ed è particolarmente abbondante nella buccia dell’uva. Questa molecola naturale ha diverse proprietà:

– una potente attività antivirale, inibendo la replicazione di rhinovirus (virus del raffreddore), adenovirus e influenza A virus, tre dei più importanti responsabili delle infezioni delle vie respiratorie

– attività antinfiammatoria

– migliora il battito ciliare che consente l’eliminazione del muco e un generale miglioramento della qualità della respirazione.

Un complesso brevettato di resveratrolo e carbossimetilbetaglucano è disponibile in farmacia in spray nasale e gocce nasali. Studi condotti in bambini affetti da rinite allergica persistente e infezioni respiratorie ricorrenti hanno evidenziato che la somministrazione intranasale topica di questo complesso riduce significativamente sia i sintomi nasali (come prurito, starnuti, rinorrea, tosse e ostruzione), sia l’insorgenza di nuove infezioni respiratorie, e conseguentemente anche i giorni di febbre, le assenze da scuola e il numero di visite pediatriche. Tra gli effetti biologici del resveratrolo vanno sicuramente annoverati quelli antivirali e antiossidanti, quelli sul sistema immunitario (protezione dall’infezione e aumentata difesa anti effettiva), antiallergica, sul sistema cardiovascolare (attività anti-aterosclerotica, anti- ipertensiva ed anti-aggregante).

“Rispetto ad altre soluzioni terapeutiche testate sull’adulto e “adattate” al bambino, il complesso di resveratrolo e carbossimetilbetaglucano ha dimostrato le sue proprietà con studi effettuati su pazienti in età pediatrica”, conclude Paola Mastromarino, Microbiologa e Virologa, Dipartimento Sanità Pubblica e Malattie Infettive, Università La Sapienza di Roma.

MALATTIE INFETTIVE E DUE PIANI NAZIONALI PER FERMARLE

MALATTIE INFETTIVE E DUE PIANI NAZIONALI PER FERMARLE

Una malattia infettiva è una patologia causata da agenti microbici o microrganismi che entrano in contatto con un individuo, si riproducono e causano un’alterazione funzionale: la malattia è quindi il risultato della complessa interazione tra il sistema immunitario e il microrganismo estraneo.
I microrganismi che causano le malattie infettive possono appartenere a diverse categorie e principalmente a virus, batteri o funghi.

Le malattie infettive di tipo virale sono causate da virus, entità elementari costituite da materiale genetico (RNA o DNA) circondato da una proteina, un lipide o da un rivestimento glicoproteico.

I virus, una volta entrati in contatto con una cellula ospite, inseriscono il proprio materiale genetico nella cellula stessa, assumendo la direzione delle sue funzioni.

La cellula, così infettata, continua a riprodursi, ma produce proteine virali e materiale genetico del virus anziché i prodotti usuali. La capacità del virus di trasmettersi dipende dal tipo di virus. Alcuni possono trasmettersi attraverso il semplice contatto, gli scambi di saliva, oppure vengono dispersi nell’aria tossendo o starnutendo e quindi inalati da un’altra persona.

Ritenute debellate o sotto controllo, con una mortalità inferiore rispetto ai tumori e alle patologie cardiovascolari, le malattie infettive, di origine batterica o virale, in realtà sono più che mai tra noi. C’è l’influenza, che ogni anno colpisce in Italia circa 5 milioni di persone. Le polmoniti, spesso associate all’influenza, con circa 200 mila casi l’anno e 10 mila decessi, e le meningiti. L’Herpes Zoster, che insieme a influenza e pneumococco forma la cosiddetta “triade maledetta” che minaccia le persone anziane. Ci sono le infezioni da Papillomavirus che possono causare tumori anogenitali. E ancora, le epatiti B e C con centinaia di migliaia di portatori cronici. Le infezioni batteriche multiresistenti che colpiscono ogni anno dal 7% al 10% dei pazienti con migliaia di decessi. Una delle infezioni virali più diffuse al mondo è quella da HCV, il virus dell’epatite C. Questo virus, attraverso l’attivazione del sistema immunitario, provoca la morte delle cellule epatiche (necrosi epatica). Le cellule epatiche distrutte dal virus sono sostituite da un tessuto cicatriziale, con la comparsa di noduli e di cicatrici che determinano la perdita progressiva della funzionalità del fegato. L’Italia è il Paese europeo con il maggior numero di persone positive al virus dell’epatite C. Circa il 2% della popolazione italiana è entrata in contatto con l’HCV e il 55% dei soggetti con HCV è infettata dal genotipo 1. E i portatori cronici del virus sono circa 1 milione, di cui oltre 300 mila diagnosticati: più di 20 mila persone muoiono ogni anno per malattie croniche del fegato (due persone ogni ora) e, nel 65% dei casi, l’epatite C risulta causa unica o concausa dei danni epatici.

La minaccia delle malattie infettive, di origine virale e batterica, è stata centro dell’evento AHEAD (Achieving HEealth through Anti-infective Defense) che si è svolto a Roma e dove rappresentanti di Istituzioni, Autorità regolatorie, associazioni pazienti e clinici hanno fatto il punto sulle strategie di contrasto che il nostro Paese sta mettendo in campo contro le malattie infettive, mostrando una grande capacità di innovazione, grazie a scelte all’avanguardia in Europa, come il Piano Nazionale di Prevenzione Vaccinale, approvato all’inizio dell’anno, e il Piano contro la resistenza agli antibiotici, il cui varo è imminente.

“Il nuovo Piano Nazionale Prevenzione Vaccinale 2017-2019, approvato in Conferenza Stato-Regioni il 19 gennaio 2017, individua strategie efficaci e omogenee da implementare sull’intero territorio nazionale dando ampio rilievo alla garanzia dell’offerta attiva e gratuita delle vaccinazioni prioritarie per le fasce d’età e popolazioni a rischio indicate. L’offerta vaccinale adesso è ampia e tra le più avanzate nel mondo”, afferma Ranieri Guerra, Direttore Generale Prevenzione Sanitaria, Ministero della Salute.

La prossima sfida è l’applicazione uniforme del nuovo Piano in tutte le Regioni italiane per assicurare a tutti i cittadini l’accesso equo ai vaccini.

Altro fronte aperto è quello dell’infezione da virus dell’epatite C (HCV). Recentemente l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha annunciato l’obiettivo dell’eliminazione delle epatiti a livello globale entro il 2030 e tutti i Governi dei Paesi industrializzati – Italia in testa – stanno adottando misure in tal senso. L’eliminazione dell’epatite C passa attraverso l’accesso a terapie antivirali di nuova generazione in grado di eradicare il virus nella maggioranza dei casi.

Se negli ultimi 70 anni l’avanzata delle malattie infettive di origine batterica ha trovato un muro, questo muro è stato rappresentato dagli antibiotici. Ma in anni recenti, l’antibiotico-resistenza, la capacità cioè dei batteri di resistere agli antibiotici, è cresciuta fino a diventare un problema drammatico. In Italia, la resistenza agli antibiotici si mantiene tra le più elevate in Europa. La risposta da dare su questo altro fronte passa per procedure di buona pratica clinica, uso appropriato degli antibiotici introducendo il concetto di stewardship, ossia la possibilità di razionalizzare l’uso degli antibiotici, e la ricerca di nuove terapie antibiotiche in grado di sconfiggere i batteri resistenti. Principi che ispirano il Piano contro la resistenza agli antibiotici che sarà varato in primavera.