Per godersi un lungo bagno nella vasca, o per una veloce doccia rilassante, è importante avere un bagno caldo e accogliente. Con gli asciugamani sempre tiepidi a portata di mano ogni volta che si esce dalla vasca è poi possibile prolungare la piacevole coccola in totale relax.
Realizzati con materiali antichi come la ceramica, la terracotta, e resistenti come il legno di cedro del Libano, gli arredi termici HOM nascondono un’anima tecnologica a basso consumo energetico, grazie alla quale diventano oggetti scaldanti per indumenti, salviette, cibi o avvolgenti sedute. Il design ricercato, infatti, li rende adatti al bagno, alla cucina di casa, ma, anche, al settore Contract.
“Gli scalda-salviette erano oggetti nati per scaldare l’ambiente, per tale motivo mi sono dedicato allo studio di una nuova tipologia di prodotti pensati per essere un vero e proprio supporto asciugante”, precisa il designer Davide Vercelli.
Dopo tre anni di ricerche svolte da Davide Vercelli e dall’azienda Rotfil in collaborazione con il Dipartimento di Scienza dei Materiali del Politecnico di Torino, è stata brevettata la nuova tecnologia più avanzata nel campo del riscaldamento elettrico a basso consumo (1 ora di accensione consuma 0,1 kw/h che corrisponde a circa 0,02 €).
Qual è l’anima tecnologica dei termoarredi? Una piastrella sinterizzata che ingloba al suo interno una resistenza elettrica, che mantiene il calore a lungo e lo cede lentamente.
“Pensando al risparmio energetico unito al know how di Rotfil, abbiamo realizzato degli elementi che trasferiscano il massimo calore nel più breve tempo possibile agli oggetti in contatto con gli elementi stessi – precisa Mario Ravaglia, fondatore di Hom –. Il loro cuore scaldante ha una notevole inerzia termica. Se accendiamo un termoarredo per pochi minuti, conserverà e trasferirà il calore che ha accumulato per alcune decine di minuti anche dopo lo spegnimento”.
Il brand piemontese propone, anche, altri arredi ricercati, funzionali e di tendenza. Lo scalda-salviette Xilo in massello di cedro del Libano emana un’essenza profumata ed è stabile e resistente all’umidità, mentre MaxiXilo è la versione su misura nelle dimensioni e nella potenza e dunque adattabile a qualsiasi ambiente. Un’altra novità è Terra, dal design lineare e realizzato in terracotta. Sono presenti, inoltre, le ultime versioni delle mensole Basic e H Pad, lo scalda-salviette Shield e lo sgabello Zig Zag. Nonostante la sua dimensione (circa 20 kg), lo sgabello è facilmente spostabile e può essere un complemento da esterni, il trattamento antigelivo lo rende resistente agli attacchi di acidi e salsedine. Il Radiatore è, invece, l’unico prodotto pensato per scaldare l’ambiente e riesce a farlo molto efficacemente, grazie alle caratteristiche della piastrella scaldante interna.
Gli arredi HOM consentono di scaldare, asciugare, arredare e risparmiare energia in casa, e dopo una giornata frenetica allontanano lo stress con un caldo “abbraccio”.
Simone Lucci
HOMè un brand di proprietà Rotfil, produttore in Italia di resistenze elettriche. Fondata in Piemonte nel 1977, Rotfil è un gruppo di sei aziende: Rotfil Srl, (Italia, sede principale), Jeka GmbH (Germania), Rotfil NA sarl (Tunisia), Termax sarl, (Tunisia), Infraker sarl (Tunisia), Elmat Srl (Italia). Il core business dell’azienda è nella produzione di resistenze elettriche, sensori di temperatura e termoregolatori per applicazioni industriali.
I microbi o microrganismi sono organismi minuscoli che non possono essere visti a occhio nudo.
La maggior parte dei microbi appartiene a uno dei quattro grandi gruppi: batteri, virus, funghi o protozoi.
La resistenza antimicrobica (AMR-antimicrobialresistance) è la resistenza di un microrganismo a un trattamento antimicrobico, che era originariamente efficace per trattare le infezioni causate dallo stesso microrganismo.
I microrganismi resistenti sono in grado di resistere all’attacco di trattamenti antimicrobici come antibiotici, antifungini e antivirali.
Negli ultimi 70 anni, i trattamenti antimicrobici sono stati usati per curare pazienti con malattie infettive, salvando milioni di vite in tutto il mondo.
Nel corso degli anni, tuttavia, l’uso e l’abuso degli antimicrobici ha incrementato il numero e i tipi di organismi resistenti.
Gli antibiotici sono tra le terapie più comunemente prescritte nella medicina umana.
Si stima che più del 50% di tutti gli antibiotici prescritti non siano necessari o non abbiano l’efficacia ottimale in base a come sono prescritti.
Ogni anno, migliaia di persone nel mondo contraggono gravi infezioni batteriche resistenti a uno o più degli antibiotici sviluppati per il loro trattamento:
– 2 milioni di persone negli Stati Uniti
– 400 mila persone nell’Unione Europea, Norvegia e Islanda.
Un nuovo potente antibiotico è un’importante innovazione per il trattamento delle infezioni causate da batteri multiresistenti agli antibiotici. Il nuovo antibiotico è composto da ceftolozano, una nuova cefalosporina, e tazobactam, un inibitore delle beta-lattamasi dall’uso ben consolidato nella pratica clinica. Ceftolozano colpisce l’integrità della parete cellulare dei batteri Gram-negativi sensibili, eludendo inoltre i molteplici meccanismi di resistenza messi in atto dai patogeni, mentre tazobactam protegge ceftolozano, facendo sì che non venga inattivato da parte degli enzimi beta-lattamasi prodotti dai batteri Gram-negativi.
“L’antibiotico-resistenza è un fenomeno pericoloso. I batteri sono naturalmente attrezzati per difendersi dagli antibiotici e il contatto con questi farmaci accelera questo processo. Per questo le terapie antibiotiche devono essere aggressive, mirate, prescritte per il tempo necessario e alle dosi corrette – afferma Pierluigi Viale, Direttore U.O. di Malattie Infettive all’A.O.U. Policlinico Sant’Orsola-Malpighi di Bologna e Professore ordinario di Malattie Infettive all’Alma Mater Studiorum Università di Bologna -. Ceftolozano/tazobactam è il primo di una serie di nuovi antibiotici, in grado di rispondere ai criteri dell’antimicrobial stewardship: il suo spettro d’azione molto mirato, quasi chirurgico, permette di utilizzarlo nei confronti di specifici profili di resistenza massimizzando quindi l’efficacia della terapia, evitando cosi l’ulteriore selezione di specie resistenti”.
Cosa si intende per antibiotico-resistenza? Il termine antibiotico-resistenza definisce la capacità dei microrganismi di mettere in atto meccanismi di evasione dagli antibiotici. Come sappiamo, i microrganismi hanno la capacità di replicarsi assai velocemente e questo induce un’elevata probabilità di generare nella propria progenie forme secondarie di ceppi mutanti. La percentuale di mutazioni spontanee è molto più significativa quando i microrganismi sono sottoposti a situazioni stressanti: in questi casi infatti le mutazioni aumentano come meccanismo di difesa del microrganismo. Uno dei fattori più stressanti per un microrganismo è l’esposizione ad antibiotici, specie se costante, prolungata e a basse dosi: semplificando al massimo, se gli antibiotici non uccidono rapidamente il batterio, i ceppi che sopravvivono diventano resistenti. Il secondo meccanismo maggiore di induzione di resistenza è lo scambio di frammenti genetici da un microrganismo all’altro. I batteri possiedono piccole sequenze del loro genoma che possono “saltare” da uno all’altro, i cosiddetti “jumping genes” di cui esistono tante forme; una, in particolare, la più efficiente, è rappresentata dai plasmidi, piccole pallottole di DNA sparate letteralmente da un microrganismo all’altro che possono provocare una multiresistenza.
Perché l’antibiotico-resistenza è considerata un’emergenza mondiale? L’antibiotico-resistenza è un fenomeno pericoloso. Ricordiamo che i batteri sono naturalmente attrezzati per difendersi dagli antibiotici e il contatto con questi farmaci accelera questo fisiologico processo. Pochi anni fa, studiando reperti animali e vegetali conservati nel ghiaccio eterno, sono stati scoperti determinanti genetici di resistenza agli antibiotici che usiamo oggi: ciò significa che i batteri posseggono già nel loro patrimonio genetico i determinanti di resistenza, evidenza che spiega perché i microrganismi fanno più in fretta a trovare vie di fuga dagli antibiotici che i ricercatori a trovarne di nuovi. Per questo motivo più le terapie antibiotiche sono aggressive, mirate, prescritte per il tempo necessario e alle dosi corrette, meno facile è per le popolazioni batteriche la selezione di specie resistenti. Al contrario, terapie inutili, troppo lunghe o sottodosate, rappresentano un formidabile strumento di selezione. Oggi per alcune specie batteriche siamo davvero a un passo dal baratro, molto prossimi all’era post-antibiotica, è una situazione di emergenza assoluta tanto che nelle loro proiezioni, i CDC di Atlanta prefigurano scenari apocalittici con milioni di morti correlate ad infezioni da ceppi microbici multiresistenti. Dobbiamo essere consapevoli che i medici che saranno sul campo tra venti o trent’anni potrebbero essere costretti loro malgrado a gestire molte infezioni in assenza di antibiotici efficaci. Pertanto, dobbiamo evitare ad ogni costo che questa deriva continui o che si acceleri, per evitare l’incubo che il super-bug diventi una realtà.
Cosa significa antimicrobial stewardship? Come può l’antimicrobial stewardship contribuire a contrastare il fenomeno dell’antibiotico-resistenza? “Antimicrobial stewardship” è un termine anglosassone che indica un approccio di sistema alla terapia antibiotica. Questo significa che quando prescrive un antibiotico il medico deve garantire al paziente non solo che la terapia prescritta sia la migliore possibile per lui ma anche la più virtuosa per l’ecosistema in cui paziente vive. Insomma, il medico ha il dovere di rispettare una sorta di doppio contratto terapeutico, con il paziente e con l’ambiente. L’antimicrobial stewardship è, dunque, un complesso di interventi finalizzati a garantire il miglior trattamento del paziente senza danni collaterali sull’ecosistema. Si tratta di mettere in atto alcune regole che puntano a contrastare l’abuso, le cattive prescrizioni, le prescrizioni inutili, la medicina difensiva, etc. Quel che è urgente è la formazione per i nuovi medici: occorre in tal senso un enorme sforzo per instaurare un reale cambio di mentalità rispetto al concetto che gli antibiotici non sono farmaci alla portata di tutti e per tutti, ma che invece vanno gestiti oculatamente da esperti.
L’antimicrobial stewardship è fondamentale perché cerca di farci usare bene quello che oggi abbiamo a disposizione e di introdurre le novità in percorsi di uso corretto. L’antibiotico invulnerabile non esiste, quindi anche i nuovi farmaci dovranno essere usati con estremo giudizio, altrimenti tra 5-10 anni potremmo perdere anche l’innovazione di oggi.
Quali sono le evidenze a sostegno dell’efficacia di ceftolozano/tazobactam, nuovo antibiotico disponibile anche in Italia? Perché rappresenta una nuova importante opzione contro le resistenze? Due studi hanno dimostrato che ceftolozano/tazobactam è efficace quanto altri antibiotici nella cura di specifiche infezioni. Il primo è un trial clinico su 1.083 pazienti con infezioni complicate delle vie urinarie nel quale ceftolozano/tazobactam è stato confrontato con levofloxacina: ceftolozano/tazobactam ha eliminato l’infezione nell’85% dei pazienti trattati rispetto al 75% dei casi trattati con la terapia di confronto. Il secondo trial clinico è stato condotto su 993 pazienti con infezioni complicate intra-addominali: ceftolozano/tazobactam è stato confrontato con meropenem, entrambi hanno portato a guarigione il 94% dei pazienti trattati. Avendo a disposizione due trial clinici idonei a garantire la commercializzazione, adesso inizia un’ulteriore fase di ricerca sul campo dove il farmaco si dovrà confrontare con ulteriori problematiche cliniche. Ceftolozano/tazobactam è sicuramente un “superfarmaco” contro la Pseudomonas aeruginosa multiresistente e nei confronti delle Enterobacteriaceae, produttrici di beta-lattamasi a spettro esteso (ESBL). Per questo dovrà essere usato da medici esperti rispetto a precise necessità, che potrebbero andare anche oltre i risultati dei trial clinici. Ceftolozano/tazobactam è il primo di una serie di nuovi antibiotici con uno spettro molto mirato, quasi chirurgico, nei confronti di specifici profili di resistenza e rappresenta una prima risposta della ricerca alle problematiche di chi si occupa di infezioni “difficili” ed alle necessità di pazienti ed operatori sanitari, per cui il suo uso, così come quello dei farmaci che seguiranno, non deve essere assolutamente banalizzato o lasciato in mani inesperte.
Nero, rosso, oolong, giallo e bianco sono alcune variopinte tipologie di tè, una bevanda salutare e ricca di proprietà benefiche. Una tazza di tè può riscaldare il cuore e l’anima di ogni amante dell’infuso dorato, e un approccio meticoloso alla sua preparazione può massimizzare il sapore donato dalle foglie di tè. Raccolte due volte l’anno, le foglie provengono principalmente da: Cina, India, Giappone, Kenia, ma non solo.
L’Alto Adige si caratterizza per un terroir ideale alla coltivazione di frutti di piccole dimensioni ed erbe rare della pregiate qualità. Dall’unione di questi ingredienti nasce Monthea, una realtà creata da Axel Brunoni e Simon Raffeiner, che da circa un anno propongono una linea di tè e infusi biologici.
Bio è molto più di una tendenza, è uno stile di vita che significa restituire alla Terra una parte di ciò che ci ha donato con tanta generosità. Nella propria attività quotidiana, l’impresa e i suoi sapienti agricoltori si sforzano di essere il più ecologici possibile, e tutti i partner di Monthea sono produttori biologici per convinzione. L’obiettivo dell’azienda, infatti, non è raccogliere grandi quantità, bensì raccogliere il meglio. Questo spirito aziendale si traduce in trasparenza, sostenibilità e carattere autoctono, che coinvolge l’intero ciclo produttivo, dalla coltivazione alla trasformazione del prodotto finito.
Tali peculiarità permettono di realizzare un tè caldo e corposo, profumato e colorato, una vera fonte di ispirazione, che vizia i sensi e si fa espressione di un certo stile di vita. Erbe Alpine, Erbe di Montagna, Menta, Lampone, Fragola, Mirtillo, Mela e Frutti di Bosco sono le varietà presentati nelle pratiche confezioni da 10 sacchetti a forma piramidale, nei “tubi” da 20 gr. (per le erbe) o 50 gr. (per la frutta) con il prodotto sfuso o nelle confezioni. Tutti infusi da gustare in un ambiente rilassato e con un’atmosfera piacevole, per vivere momenti in totale relax in cui ci si lascia conquistare dal sapore genuino della natura altoatesina.
Dal carattere locale e improntati alla sostenibilità, i tè e gli infusi sono ideati partendo dalle migliori materie prime altoatesine, da un irrefrenabile entusiasmo e dall’amore per la natura.
C’è l’immagine di Sefora e Martina: si tolgono la parrucca davanti all’obbiettivo, immortalando con questo gesto il tentativo di riappropriarsi di una bellezza non solo interiore. È solo una delle oltre 80 fotografie scattate da 29 ragazzi di età compresa tra i 14 e i 27 anni, accomunati dalla ricerca della felicità nonostante la malattia.
Gli 80 scatti compongono la collettiva “RI-SCATTI, la ricerca della felicità” a cura di Chiara Oggioni Tiepolo e ideata dalla Onlus Riscatti in collaborazione con il comune di Milano e con il supporto di Tod’s, il noto brand specializzato nella produzione di calzature e accessori di lusso appartenente alla famiglia Della Valle. Ospitata nelle sale del PAC (Padiglione d’Arte Contemporanea) di via Palestro dal 3 al 12 febbraio, la terza edizione della mostra di fotografia sociale sostiene il Progetto Giovanidell’Istituto Nazionale dei Tumori (INT).
Le istantanee esposte durante la mostra sono messe in offerta e parte del ricavato sarà devoluto a favore della realizzazione di nuove iniziative nell’ambito del Progetto Giovani, sostenuto dall’Associazione Bianca Garavaglia Onlus all’interno del reparto di Pediatria dell’INT.
Le fotografe Alice Patriccioli, Veronica Garavaglia, e Donata Zanotti si sono alternate nel prestare la loro professionalità, insegnando ai ragazzi della Pediatria Oncologica come usare la macchina fotografica e costruire, così, un progetto. Come negli altri percorsi creativi già attuati dal Progetto Giovani, la scelta del tema e del territorio in cui muoversi è partita dai ragazzi, permettendo loro di raccontarsi nella propria unicità e di mostrare quali soluzioni hanno attuato per trovare la forza di combattere la malattia e tornare a sorridere.
Questa iniziativa, come tutte quelle che nascono in seno al Progetto Giovani coordinato dall’oncologo pediatra Andrea Ferrari, utilizza la creatività come mezzo di espressione per i ragazzi, che hanno esternato le loro paure e le loro speranze.
“Quando è nato il Progetto Giovani, avevo già in testa cosa costruire. Un progetto dedicato ai pazienti adolescenti, per migliorarne gli aspetti clinici, ma anche per creare un luogo dove essi potessero ritrovare il senso delle cose normali della vita. Volevamo creare un modello di reale integrazione multidisciplinare, sviluppato in un contesto di servizio sanitario pubblico – racconta Ferrari –. Credevamo di avere delle cose da insegnare a questi ragazzi, ma non esiste una ricetta che consenta di superare l’angoscia e la paura. Sono stati loro, i pazienti malati, a insegnarci ad aprire le nostre orecchie, i nostri occhi, il nostro cuore. I nostri ragazzi, attraverso queste foto, ci hanno insegnato ancora una volta che ci sono storie meravigliose da raccontare, qui dentro al Progetto Giovani, qui nel mondo dove i ragazzi si ammalano di tumore”.
La mostra fotografica è un importante progetto, anche, per i medici, in quanto comunicano che ci si può ammalare di tumore anche durante l’adolescenza, che gli adolescenti sono pazienti speciali, che spesso trattati in modo non adeguato e che, pertanto, hanno assolutamente bisogno di luoghi e cure speciali, creati appositamente per loro. Cosa che già accade all’interno di un reparto di eccellenza come la Pediatria Oncologica dell’Istituto dei Tumori di Milano, diretta dalla dottoressa Maura Massimino.
Rubino intenso, rosso che va dal porpora fino al mattone, i colori. Sentori di fragola, prugna, pot-pourri, cannella, cioccolato, uva passa… In un calice di Rosso Mediterraneo ci sono la Puglia, la sua gente e i suoi valori.
Un video riassume e rappresenta i luoghi da cui ha origine il Primitivo di Manduria, terroir suggestivo e ricco di cultura.
Un viaggio emozionante, la poesia di un uomo che attraversa luoghi con panorami mozzafiato, vecchi vigneti, prodotti tipici, e incontra maestranze e saperi, per poi ritrovarsi appagato a brindare insieme alla famiglia con una bottiglia di Primitivo di Manduria.
Il filmato nasce per celebrare la magia del vigneto Puglia e di tutto ciò che esso contiene: le monumentali masserie imbiancate a calce, i muretti a secco, il rosso del Primitivo e gli insediamenti rupestri di Taranto e di Brindisi…
“Un progetto che vuole invogliare a visitare i nostri luoghi e le nostre cantine – spiega Roberto Erario, Presidente del Consorzio –. Il Primitivo di Manduria è più che un vino: è il suo territorio. Abbiamo la fortuna di vivere in una regione magnifica, tra gente autentica che ha voglia di crescere. Ringrazio gli attori, le imprese e le nostre aziende per aver permesso la realizzazione del video che sarà proiettato a fiere ed eventi internazionali”.
Nel filmato due parole: Rosso Mediterraneo. “Si rifanno al colore del Primitivo di Manduria: la tipica carica aromatica di bacca rossa e spezie, vestita di colore rubino, è la diretta proiezione di ciò che lo circonda. Ecco perché Rosso viene, in modo naturale, associato alla parola Mediterraneo”, conclude il Presidente del Consorzio.
Rosso Mediterraneo, in un calice di Primitivo di Manduria la semplicità della bellezza made in Puglia. Questo è il concept della nuova campagna del Consorzio di Tutela del Primitivo di Manduria ispirato al legame tra il grande vino pugliese e il suo territorio.
Clementina Speranza
Il Consorzio di Tutela del Primitivo di Manduria è composto da 27 aziende che vinificano e imbottigliano e da oltre 850 soci, viticoltori per passione. Sono circa 3.140 ettari i vigneti che costituiscono la denominazione del Primitivo di Manduria, e 18 i comuni, tra Taranto e Brindisi, che producono Primitivo di Manduria Doc.
Nel dicembre 2015, il Consorzio ha ottenuto dal Ministro delle Politiche Agricole e Forestali l’incarico di svolgere funzioni di tutela, promozione, valorizzazione, vigilanza, informazione del consumatore e cura generale degli interessi di cui all’art. 17, comma 1 e 4 del d. lgs. 8 aprile 2010, n. 61 – Erga Omnes per la DOC Primitivo di Manduria. A tal fine sono già stati formati due agenti vigilatori che avranno il titolo di pubblici ufficiali e, in collaborazione con l’Istituto Centrale Qualità Repressione e Frodi, potranno effettuare controlli anche sui vini già posti a scaffale, per tutelare il consumatore e i produttori da irregolarità o anomalie relative al prodotto, e garantenire che esso rispetti i dettami del Disciplinare di produzione.
Il Consorzio nasce ufficialmente il 16 febbraio 1998 per iniziativa di un gruppo di produttori desiderosi di costituire un istituto giuridico in grado di tutelare il vino “Primitivo di Manduria”.
Trae ispirazione dalla legge n°164 del 1992, ed è su quel dispositivo che arriva il primo statuto, con la sottoscrizione di dieci aziende, tra cooperative e private, sicuramente tra le più rappresentative del territorio. Dopo questo primo, essenziale punto di partenza, ci si è impegnati per aumentare il numero di aderenti in modo da ottenere quel 40% della rappresentatività del prodotto oggetto di tutela, limite minimo richiesto dalla legge per il riconoscimento, finalmente ottenuto col Decreto Ministeriale del 5 aprile 2002.
In pochissimo tempo è stato grande il successo del Primitivo, grazie anche alla presa di coscienza dei produttori che hanno ridotto i quantitativi di uva per ettaro, hanno vinificato con l’uso delle più avanzate tecnologie e si sono impadroniti delle più opportune strategie di marketing, presentando così nel mondo un vino elegante e appagante. Un genio multiforme che, a seconda dei vari metodi di lavorazione ed affinamento, riesce a esprimersi con diverse sfumature e sensazioni di gusto, in un’armonia inimitabile di colore, profumo e sapore.
IL VITIGNO Il vitigno primitivo trae il suo nome dalla precocità della maturazione che lo rende, appunto, uno fra i primi vitigni ad essere vendemmiati a fine agosto. Caratteristica questa che, però, non impedisce agli zuccheri di aumentare la loro concentrazione, tanto che la particolarità principale dei vini ottenuti dal vitigno primitivo è la sua gradazione alcolica: il Primitivo prevede infatti una gradazione minima di 14 gradi per il Primitivo di Manduria secco Dop, 16 gradi per il Primitivo di Manduria Dolce Naturale Docg e addirittura 18 gradi per il Primitivo di Manduria Liquoroso Docg.
IL VINO Il Primitivo di Manduria si presenta alla vista con un rosso-violaceo, tendente all’arancione con l’invecchiamento; l’aroma è leggero e caratteristico, il sapore asciutto, pieno, armonico, tendente al vellutato con l’invecchiamento. Il Primitivo di Manduria Dolce naturale ha colore simile ma sapore dolce, caldo, pieno e armonico; proprietà che si riscontrano anche nel Primitivo di Manduria Liquoroso dolce, dove però la nota alcolica diventa evidente.
Abbinamenti consigliati: Il Primitivo di Manduria Secco è un vino da pasto che si abbina con piatti saporiti e strutturati come: salumi, formaggi piccanti, carni di maiale e primi a base di ragù, come le immancabili orecchiette. Il Primitivo di Manduria Dolce Naturale è un vino da meditazione che si sposa bene sia con pasticceria secca che con formaggi duri stagionati. Il Primitivo di Manduria Liquoroso Dolce, invece, si abbina meglio a pasticceria più elaborata come le torte a base di creme.
La Leucemia Mieloide Acuta (LMA) è una forma aggressiva di tumore ematologico e del midollo osseo. Questa malattia si caratterizza per la mancata maturazione dei globuli bianchi, con conseguente accumulo di “blasti” che vanno ad occupare lo spazio delle normali cellule ematiche.
La LMA è la forma di leucemia acuta più frequente dell’adulto/anziano, con un’incidenza massima sopra i 60 anni d’età, e presenta i tassi di sopravvivenza più bassi. A livello globale i tassi di incidenza più elevati registrati negli Stati Uniti, in Europa e in Australia. Colpisce entrambi i sessi con una lieve preferenza per quello maschile.
La Leucemia Mieloide Acuta origina dalle cellule midollari della linea mieloide (quella da cui derivano i globuli rossi, i globuli bianchi e le piastrine) e si definisce “acuta” perché le cellule leucemiche crescono molto rapidamente. Le cellule maligne nate nel midollo osseo si diffondono nel sangue e anche in alcuni organi come linfonodi, fegato, milza.
Diversi fattori, genetici e ambientali, possono aumentare la probabilità di ammalarsi di questo tumore del sangue favorendo lo sviluppo di alterazioni cromosomiche identificabili in una significativa percentuale di casi già al momento della diagnosi.
Si distinguono tre tipi di Leucemia Mieloide Acuta:
primaria, o “de novo” a insorgenza primitiva;
secondaria a una precedente sindrome mielodisplastica o mieloproliferativa cronica;
secondaria a esposizione a sostanze tossiche/chemioterapia/radioterapia.
I sintomi della Leucemia Mieloide Acuta consistono in perdita di peso, stanchezza, febbre, sudorazioni notturne, perdita di appetito, mancanza di fiato, ipersensibilità al freddo, aumentato rischio di sanguinamento e infezioni.
La caratterizzazione della Leucemia Mieloide Acuta si ottiene attraverso una serie di analisi di citomorfologia e citochimica per visualizzare le cellule leucemiche, i blasti; l’immunofenotipo per individuare mediante anticorpi monoclonali alcune specifiche proteine espresse sulla superficie delle cellule leucemiche; la biologia molecolare per individuare le mutazioni o altre aberrazioni geniche.
La diagnosi comporta un esame microscopico con lo striscio di sangue periferico e l’esame del midollo osseo per individuare i blasti.
Il trattamento della Leucemia Mieloide Acuta si basa attualmente sulla chemioterapia standard seguita dall’eventuale trapianto di cellule emopoietiche. La chemioterapia comprende due fasi: induzione, per portare in remissione la malattia, e consolidamento, che è una terapia di post-remissione.
La prognosi dipende dall’età del soggetto, da patologie associate e dalle alterazioni molecolari alcune delle quali, come FLT3, hanno valore prognostico molto sfavorevole.
Oltre il 50% dei pazienti con Leucemia Mieloide Cronica in remissione completa a un anno dalla sospensione della terapia, secondo i più recenti dati degli studi clinici e un numero crescente di pazienti italiani può accedere a LabNet, il network italiano per la diagnostica molecolare realizzato dal GIMEMA – Gruppo Italiano Malattie EMatologiche dell’Adulto. E prima innovazione terapeutica dopo 25 anni, nuove prospettive di cura per la Leucemia Mieloide Acuta grazie a midostaurina, un farmaco che aumenta in modo significativo la sopravvivenza; mentre approcci terapeutici innovativi andranno presto a impattare sulla comune pratica clinica e sul trattamento di tutte le più importanti malattie del sangue. Si è parlato di questo durante la XI edizione della “Giornata Nazionale per la lotta contro leucemie, linfomi e mieloma” promossa da AIL, sotto l’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica.
“Ogni anno la Giornata Nazionale si concentra su temi diversi: quest’anno ci siamo occupati soprattutto di diagnostica, terapia e qualità di vita dei pazienti affetti da Leucemia Mieloide Cronica che grazie alle terapie che hanno rivoluzionato la cura oggi hanno una prospettiva di vita molto simile a quella delle persone sane – dichiara Franco Mandelli, ematologo di fama internazionale e Presidente Nazionale AIL -. Il focus sui risultati più recenti relativi alle cure legate alla LMC e sulla possibilità di sospendere la cura e quindi di poter considerare questa malattia finalmente guaribile”.
Il quadro di riferimento che ha reso possibili questi sviluppi è quello dell’Ematologia di precisione, l’approccio che unisce terapie mirate e diagnostica molecolare avanzata per calibrare le terapie sulle caratteristiche molecolari delle malattie del sangue con grandi benefici in termini di efficacia e minori effetti collaterali.
“Nell’Ematologia è in corso una vera propria rivoluzione e la ricerca italiana ne è protagonista come confermano il numero delle pubblicazioni presentate e l’autorevolezza riconosciuta ai nostri ricercatori negli ultimi appuntamenti internazionali – afferma Fabrizio Pane, Professore ordinario di Ematologia, Direttore Unità Operativa di Ematologia e Trapianti dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II di Napoli e Presidente SIE, Società Italiana di Ematologia -. Apripista di questa rivoluzione è stata la Leucemia Mieloide Cronica, la prima patologia del sangue per la quale sono stati sviluppati farmaci mirati al bersaglio molecolare, gli inibitori della tirosin-chinasi, in grado di indurre significative e persistenti risposte di malattia in oltre il 90% dei pazienti, un numero crescente dei quali interrompe il trattamento, poiché in remissione molecolare profonda di malattia”.
Dolore addominale, meteorismo, gonfiore e irregolarità sono i principali sintomi che caratterizzano della Sindrome dell’Intestino Irritabile (IBS). Una patologia di per sé non grave, ma con importanti ripercussioni sulla vita sociale e affettiva del paziente. La diagnosi non di rado è tardiva, perché inizialmente sottovalutata dagli stessi pazienti e perché i suoi sintomi sono spesso contrastati in modo inadeguato con un casuale, inefficace e a volte dannoso “fai da te”.
Per analizzare la considerevole dimensione socio-sanitaria di questa patologia, il Censis ha condotto un’indagine qualitativa con particolare riferimento a una delle sue forme più diffuse. Lo studio è stato condotto per mezzo di otto interviste qualitative a pazienti con IBS-C diagnosticato e in cura presso altrettanti centri specializzati nella cura di questa condizione distribuiti tra nord, centro e sud.
In generale l’IBS si presenta frequentemente in tutte le fasce d’età con una lieve diminuzione all’aumentare dell’età ed è maggiormente frequente nel sesso femminile. Inoltre, esistono potenziali fattori di rischio sia di natura somatica, come la celiachia e le infezioni intestinali, che psicologica, come lo stress. I sintomi sono ben definiti: dolore, gonfiore e stipsi o diarrea. Più nello specifico l’incidenza dell’IBS associata a costipazione (IBS-C) si stima intorno al 25 per cento dei soggetti con IBS.
In Italia sono pochi gli studi epidemiologici sull’IBS e in particolare sono del tutto assenti quelli condotti nell’ambito delle cure primarie. Proprio in questo contesto la SIMG, Società Italiana di Medicina Generale e delle cure primarie, ha realizzato un report dal titolo “Sindrome del colon irritabile in assenza o presenza di costipazione: uno studio in medicina generale”. Ecco alcuni dei dati che emergono dallo studio.
Dati di prevalenza per sesso ed età IBS. La prevalenza dell’IBS è del 3,5%, più elevata nel sesso femminile rispetto al maschile (4,49% contro il 2,45%) e senza particolari differenze per le fasce d’età, a eccezione della fascia di età inferiore e degli ultra 85enni. In particolare, i dati SIMG rilevano un picco tra i 45 e i 54 anni con un’incidenza maschile del 2,83% e una femminile del 5,25%. L’inferiore numero di casi nelle fasce d’età più giovani dipende da una presa in carico ancora parziale della popolazione adolescente da parte della medicina generale, mentre i grandi anziani sembrano incorrere meno nella patologia a causa della loro maggiore istituzionalizzazione che quindi può non essere più di competenza del medico di medicina generale. Questi dati sono in linea con quanto presente in letteratura, nonostante stime più recenti (11,5%) indichino un certo livello di sottostima della registrazione della diagnosi. Non è infatti da escludere, per questa tipologia di problema, il frequente ricorso diretto alle farmacie.
IBS-C. Per quanto concerne la prevalenza di IBS-C nella popolazione generale il dato è dello 0,07% con un andamento per sesso ed età simile a quello dell’IBS. In particolare i dati SIMG rilevano un picco per i maschi tra i 75 e gli 84 anni con un’incidenza dello 0,10% e per le donne tra i 65 e i 74 anni dello 0,16%. Il dato dell’IBS-C mostra che la costipazione è presente nel 2,07% dei pazienti con IBS relativamente al periodo 1998-2014.
Per un 5 per cento dei pazienti (circa 50 mila in Italia) i sintomi della sindrome del colon irritabile con costipazione (IBS-C) sono talmente gravi da risultare invalidanti e pericolosi per lo stato di salute generale. “Occorre più attenzione da parte dei medici di medicina generale. Le nuove molecole danno un sollievo importante da dolore e costipazione, ma non sono ancora dispensate dal Sistema sanitario nazionale”, puntualizza Enrico Stefano Corazziari, Professore Ordinario di Gastroenterologia presso La Sapienza-Università di Roma, che abbiamo intervistato.
Che tipologia di sintomi riportano questi pazienti definibili come gravi? Sicuramente costipazione e un dolore addominale così forte da creare sofferenza e allarme. Non a caso si registrano numerosi accessi al pronto soccorso.
In questi casi, se non trattati, sono possibili complicanze? Sicuramente. La ritenzione delle feci produce erosione della parete del colon, possibili ostruzioni con necessità di interventi chirurgici d’emergenza per rimuovere ostruzioni e curare perforazioni intestinali. Il rischio è tanto maggiore quanto è maggiore l’età del paziente, soprattutto se sono presenti altre patologie legate all’età come ipertensione, diabete e malattie cardiovascolari. In questi casi anche un’IBS-C meno grave diventa pericolosa se associata ad altre condizioni. Spesso, infatti, le terapie per patologie preesistenti possono avere un impatto negativo proprio sulla salute gastrointestinale.
Le conseguenze di un’IBS-C possono anche essere psicologiche. È corretto? Sì. La patologia in genere insorge da bambini e questo spinge il soggetto sin da piccolo ad abituarsi alla malattia, spesso influenzando negativamente le sue relazioni sociali: l’insorgere del dolore è infatti imprevedibile. Ma l’isolamento può provocare depressione. Si dice spesso che questa patologia è psicosomatica: in realtà è più frequente che sia il corpo a influenzare la mente.
Nell’IBS-C c’è maggiore rischio di incorrere in patologie gravi, come il tumore al colon? Fortunatamente no. Tuttavia, è una patologia che può confondere persino i medici e portare a diagnosi sbagliate. Ad esempio sappiamo che in questi pazienti c’è una maggiore incidenza di interventi chirurgici addominali inappropriati: nel ricercare la causa del dolore si sottopone il soggetto a interventi come la colecistectomia, l’isterectomia o l’appendicectomia. L’altro problema è che nell’IBS-C il paziente tende a convivere con la sintomatologia e quindi fa scarsa attenzione ai sintomi addominali. Così può capitare che, nel caso insorga una patologia importante come un tumore, il paziente tenda a ignorarne i primi sintomi ritardando la diagnosi.
Quanto passa mediamente dai primi sintomi alla diagnosi di IBS-C? Dipende dall’esperienza del medico. Più è esperto, meno ha necessità di ricorrere a diagnosi per esclusione. Il primo step è la valutazione dei fattori di rischio per patologie gravi. A chi non ne ha, ma mostra i tipici segni dell’IBS-C, il medico dovrebbe limitarsi a prescrivere esami per escludere altre patologie: il test dell’intolleranza al lattosio, il test della celiachia e il dosaggio della calprotectina fecale per escludere una malattia infiammatoria cronica (morbo di Crohn e rettocolite ulcerosa). Ai pazienti con più di 50 anni invece è comunque consigliata una colonscopia. Solo seguendo questi step si evitano costi inutili a carico del Sistema ed effetti iatrogeni prodotti da esami invasivi inappropriati.
Quanto conta, nella diagnosi, il ruolo del medico di medicina generale? Moltissimo. Pensiamo che solo il 5 per cento dei pazienti con IBS-C si rivolge in prima battuta al gastroenterologo. Il medico di medicina generale dovrebbe quindi prestare grande attenzione ai sintomi del paziente, dedicandogli il tempo necessario. Inoltre il medico di base, a differenza del gastroenterologo, in genere conosce già il paziente e il suo stato di salute generale: questo dovrebbe aiutare.
Nell’IBS-C esiste un problema di automedicazione e di terapie inadeguate. Cosa comporta tutto ciò? I principali sintomi dell’IBS-C sono stipsi e dolore addominale; tuttavia, i farmaci spesso prescritti dai medici stessi o scelti dal paziente in autonomia agiscono solo su uno dei due sintomi e tendono a peggiorare l’altro: un lassativo migliora la stipsi ma peggiore il dolore, un antispastico migliora il dolore ma peggiora la stipsi. L’alternativa fino a oggi era costituita dagli antidepressivi, con un’azione sul sistema nervoso centrale. Tuttavia, anche questi sembrano agire più sul dolore che sulla stipsi. Le nuove molecole oggi disponibili sembrano invece dare un sollievo importante su entrambi i versanti; tuttavia, hanno un costo a carico del paziente. In questo senso, e proprio per i pazienti più gravi, sarebbe importante che queste terapie fossero dispensate dal Sistema sanitario nazionale, magari su esclusiva prescrizione dello specialista.
Sughero, laterizi, fibra di cellulosa e legno sono alcuni materiali sostenibili, ecologici e non inquinanti, utilizzati per ridurre e limitare il più possibile il consumo di energie non rinnovabili, salvaguardando, così, l’ambiente attraverso un maggiore risparmio energetico. Ed è proprio il legno il simbolo di Ri-Legno, la società nata a Rovereto dall’incubatore di Progetto Manifattura, l’hub della green economy di Trentino Sviluppo.
Da start-up a giovane impresa trentina, l’azienda ha l’obiettivo di risanare strutture e nuovi edifici di legno con materiali rinnovabili e mobili di design ricavati dagli scarti di produzione. Se inizialmente si occupava di recuperare strutture di legno come palazzetti, ponti, tetti delle case, parchi gioco, ora Ri-Legno ha deciso di allagare il business e affacciarsi anche al settore delle nuove abitazioni super efficienti, acquisendo dalle riqualificazioni e dagli scarti di costruzione il legname per realizzare arredamenti di interni.
“Ri-Legno è molto cresciuta e stiamo per superare il milione di euro di fatturato, dopo tre anni di attività – precisa Lavinia Sartori, Sales Manager di Ri-Legno –. Vogliamo puntare sulle grandi strutture sfruttando il nostro know-how sul legno e allargare il nostro lavoro di rigenerazione delle strutture, una specialità che in Italia è quasi assente e che può aiutare a preservare un grande patrimonio, in particolare nelle aree alpine”.
Il legno viene recuperato dalle strutture di zone montane per preservare la memoria di questi luoghi. “Noi abbiamo baite e rifugi che tanti pensano di smontare e ricostruire – racconta Giulio Franceschini, Project Manager di Ri-Legno –. Eppure il legno può avere una nuova vita se mantenuto e rigenerato, senza impiegare una quantità ingente di nuovi materiali”.
La svolta aziendale è avvenuta, proprio, con l’acquisizione di un grosso centro taglio legna in Trentino, non lontano dal Lago di Garda, che garantisce 1600 mq di area manifatturiera. Un’acquisizione che tutela i lavoratori della vecchia segheria e crea nuovi posti di lavoro nel settore dell’industria del legno. In questo modo, l’azienda non esternalizza nessun lavoro e mantiene le attività nella provincia. “Progettazione, produzione, lavorazione e messa in opera ci permettono di essere autonomi e aprirci a nuovi business come il riuso degli scarti”, afferma Franceschini.
In futuro, infatti, sarà aperta una vera e propria residenza d’artista, e gli scarti di produzione del centro taglio legna verranno messi a disposizione di designer e creativi selezionati e ospitati dall’impresa con lo scopo di ideare sedie, letti e armadi di design. “Riutilizzare il vecchio legno per creare un nuovo mobile consente di abbattere i costi, e fornire un arredamento in stile con le nuove costruzioni, mantenendo un fil rouge coerente con la costruzione, senza sprecare un centimetro cubo di materiale – spiega Sartori –. Nel 2017, abbiamo calcolato di recuperare oltre 10 metri cubi di legname, sufficienti per realizzare 500 mobili di medie dimensioni”.
Il 2017, inoltre, si apre per Ri-Legno con grandi novità. Il primo progetto è, infatti, una palazzina di quattro piani a Bologna. 800 mq di appartamenti interamente in legno, con cappotto in sughero tostato portoghese, finiture di pregio e serramenti super performanti.
Ri-Legno rappresenta una filiera completa, il cui scopo è diventare un nome di riferimento nel panorama italiano del legno, della rigenerazione, della costruzione e dell’economia circolare.
Felpa azzurra con un grande fiore al centro, gonna a righe con fiori gialli, calze arancioni, in testa un cerchietto arancione con palline e infine una borsa blu e fucsia. Si presenta così Ágatha Ruiz de la Prada, la stilista spagnola colorata dentro e fuori. Il fucsia è il colore che la identifica e il nero non è mai presente nelle sue collezioni.
“Sono nemica del nero. Mi fa paura e non capisco come possa andare tanto di moda a Milano – afferma –. La passione per i colori nasce da quando ero bambina. Ma i colori non bastano, tempo fa ero a Panama per una mostra e un giornalista mi ha chiesto se per me fosse più importante il colore o la forma. Nel mondo mi conoscono per il colore, ma reputo più rilevante la forma. E quella dei miei vestiti è rivoluzionaria”.
Non le piacciono pelle, pelliccia e tessuti artificiali. Predilige la seta e poi il cotone. “Quando ho incominciato usavo molto la seta, e con tessuti di altissimo livello, anche perché mi facevano un prezzo speciale. Ho avuto la fortuna di lavorare come stagista con Ratti, uno dei migliori fabbricanti di seta nel mondo”, ricorda De la Prada, e aggiunge: “Oggi è impossibile lavorare con tessuti di grande qualità a causa dei costi elevati”.
“Quelli che non vogliono imitare qualcosa, non producono nulla” è una frase del grande pittore e scultore Salvator Dalì, cui la stilista si ispira. Ágatha Ruiz de la Prada, per disegnare le sue collezioni, guarda al movimento surrealista e vi aggiunge i colori più vivaci della Pop Art. “Trovo che la Pop Art sia il periodo più ottimista della storia della pittura, mi piace molto l’astrattismo, l’arte del ventesimo secolo mi incanta”.
Alcuni abiti della designer sono vere sculture, opere d’arte. È il caso dell’abito Piano e del vestito Gabbia, presenti nella collezione AW 2009/2010, omaggio a Salvador Dalì nell’anno della celebrazione dei vent’anni trascorsi dalla sua morte. “Avrei voluto fare la pittrice – confessa ÁgathaRuiz de la Prada –, ma dopo artisti del calibro di Dalì, Mirò e Picasso, sarebbe stato difficile emergere. Fare la stilista è più facile e trovo riscontro alle mie creazioni in modo immediato”.
Ha mai dipinto a mano capi della sua collezione? Molti, molti, molti, mille. Di recente hanno sfilato in passerella tutti vestiti dipinti a mano. Ho trascorso la mia vita a dipingere sui tessuti: su seta, cotone…
Quale capo dovrebbe avere ogni donna nel suo armadio? E quale non può mancare nel guardaroba maschile? Penso che l’uomo ha bisogno di più colore. Perché deve indossare sempre capi neri? È orribile no? E poi, le persone, uomini e donne, devono vestirsi con indumenti comodi. Le scarpe sono importantissime, e anche le calze colorate, io do molta importanza alle gambe.
I capi delle sue collezioni sono sempre molto estrosi. Quali peculiarità caratteriali deve avere chi indossa i suoi abiti? La donna de la Prada deve essere coraggiosa. Molto coraggiosa.
Tra le molte collezioni che ha realizzato ce n’è una alla quale è particolarmente legata? La prima. La prima è come il primo amore, è una cosa che nella vita non dimentichi. La canzone della prima sfilata l’ho sentita tutta sulla pelle. La prima volta è favolosa. Te la ricordi per sempre. È stata spettacolare anche la prima volta che ho sfilato a Parigi, dalla strada vedevo la Tour Eiffel. Un’emozione impressionante. Poi una delle ultime sfilate: per i 30 anni della mia carriera ho voluto ripercorre i 30 anni del brand. Una retrospettiva, ho lavorato sul dipinto a mano, sulle stampe…
Fiori giganteschi, cuori, macro bolle, labbra rosse, nuvole bianche e mani che avvolgono la silhouette di chi indossa il capo sono solo alcune delle stampe. Sembra di essere in una favola, come fa a coltivare la sua creatività senza ripetersi mai nel corso degli anni? Ho una bella squadra, con molta gente giovane che mi aiuta.
Apple, Audi, Barbie, Swatch, Camper, Lacoste, Unicef, Nestle, Kleenex, sono solo alcuni dei brand con cui ha lavorato. Come sceglie con chi collaborare? Con quale brand ha vissuto l’esperienza più stravagante? Facilmente dico di sì, ma ci sono cose a cui dico di no: pelle, pellicce, tabacco.
Un’esperienza insolita: ricordo una ditta italiana che mi ha ordinato una collezione di porte blindate. È stato difficile, ma sono stata felice del risultato: sono state vendute in tutto il mondo, e poi ho realizzato un’altra collezione di porte, per un altro fabbricante.
Di recente sono nati i profumi e i balsamo labbra da lei firmati. Come nasce l’idea? Tra i progetti futuri vi sarà la possibilità di ampliare la linea? Io penso che l’ossessione di ogni designer sia creare un profumo. Era il mio sogno e ne ho realizzati più di 18. Sono stata fortunata, perché ho collaborato con professionisti competenti ed esperti. Il mio produttore di profumi è bravissimo: è il terzo o il quarto nel mondo. Per la moda il profumo era importantissimo, ma ora tutto è fondamentale: le collezioni per la casa, per i bambini…
A vent’anni dalla sua prima sfilata, com’è nata la passione per la moda? Volevo fare la pittrice però, a 14/15 anni, nel momento in cui una ragazza desidera particolarmente essere bella, ho pensato che la moda dà una felicità immediata, mentre quello dell’arte è un cammino molto solitario, molto difficile, molto duro. Conoscevo abbastanza bene il mondo dell’arte, ed essere una grande artista dopo Picasso era difficile. Essere una grande stilista era più facile.
Quali studi ha intrapreso? Io sono abbastanza autodidatta. Ho iniziato a 20 anni alla Escuela de Artes y Tècnicas de la Moda di Barcellona, che però non mi piaceva, ci sono rimasta un anno. Non ero una brava studentessa, se lo fossi stata ora sarei un architetto.
Lei ha tenuto diversi incontri presso le Università nel mondo. Cosa consiglia ai giovani che si avvicinano al settore della moda? Consiglio di avere molta pazienza, perché il bello di questa professione è la professione in sé, molti vogliono raggiungere il successo subito. L’importante è amare il proprio lavoro, giorno dopo giorno, ed essere felici giorno dopo giorno.
Qual è per lei il concetto di lusso? Mi reputo una designer molto democratica, per me il lusso è la cultura, la musica, l’intelligenza, gli amici, il cibo. Se tu esci felice e ben vestito, è fatta.
Dal 2006 ÁgathaRuiz de la Prada è attiva per Unicef nella campagna Frimousse de Crèateurs e crea bambole di pezza che vengono battute all’asta per finanziare molteplici progetti.
La designer si ispira al mondo dei più piccoli e inventa per loro una linea su misura che ne cattura l’ottimismo e la spensieratezza.
La stilista vive nel suo mondo colorato: “Vesto sempre con i miei abiti perché sono lo specchio di quello che io sono”.
Negli ultimi anni lo scenario della sanità e dell’oncoematologia è cambiato in modo sostanziale. I mutamenti che si sono susseguiti sono dovuti alla riduzione delle risorse economiche dell’intero comparto sanitario e alla crescente disponibilità di nuovi farmaci e nuovi strumenti diagnostici più efficienti ma anche più costosi, che rendono più difficile al medico la gestione del paziente nel suo iter diagnostico-terapeutico globale.
Potrebbero essere di oltre 20 miliardi l’anno i risparmi nella spesa sanitaria nazionale se nei servizi sanitari si ricorresse in modo più diffuso al lean management (gestione snella), una modalità organizzativa e gestionale già applicata con successo nel settore dell’industria automobilistica (Toyota è stata la prima) e che ora comincia ad essere adottata con ottimi risultati in sanità, anche in ambito oncoematologico. Una pratica che si propone la riduzione degli sprechi di tempo e denaro e la massimizzazione del tempo dedicato al paziente. In pratica, si analizzano i processi di cura e si ottimizzano le singole attività che ne sono parte, riducendo tempi e attività superflue e concentrandosi, invece, su quelle che producono valore per il paziente.
Sono tutti elementi emersi nel corso del convegno, tenutosi a Roma all’Istituto Superiore di Sanità, sul tema Patologie oncoematologiche: evoluzione della terapia e del modello assistenziale.
Riflessioni e confronto sui bisogni del paziente sia in termini di modelli organizzativi assistenziali che di terapie innovative che permettano, da un lato, la gestione del paziente fuori dall’ospedale e, dall’altro, garantiscano un elevato profilo di efficacia, sicurezza e tollerabilità.
Le potenzialità e gli effetti concreti, economici e non, del lean management sono stati resi evidenti nel corso del convegno di Roma con la presentazione del caso dell’Azienda Ospedaliera Universitaria (AOU) di Siena che in diversi ambiti, tra cui quello oncoematologico, ha conseguito risparmi e recuperi di efficienza non indifferenti, reinvestiti in alta tecnologia e in iniziative a favore del paziente. Nel periodo compreso tra il 2012 e gennaio 2016, l’AOU senese ha registrato una soglia di risparmio di oltre tre milioni di euro. I proventi ottenuti da questi contenimenti sono periodicamente reinvestiti in iniziative a favore del paziente: una scelta importante, questa, visto che solo nel 2014 è stato raggiunto un risparmio, tra tutti i reparti, quantificabile in 600 mila euro, reinvestiti in alta tecnologia. “Tuttavia, l’aspetto economico per noi non ha rappresentato la prima priorità – spiega Giacomo Centini, Direttore Amministrativo AOU Senese –, ma la conseguenza di scelte destinate a migliorare l’esperienza del paziente e la qualità delle terapie. Abbiamo individuato una gerarchia di priorità: prima di tutto servire meglio il cliente, poi costruire un ambiente lavorativo positivo per gli operatori e solo in ultima battuta ridurre i costi minimizzando gli sprechi”.
Uno degli elementi caratterizzanti il lean management, oltre alla razionalizzazione dei processi, è il ricorso, ove possibile, alla deospedalizzazione e all’assistenza domiciliare: una pratica che tiene il paziente oncologico lontano da possibili luoghi di contagio oltre a consentirgli una migliore qualità della vita.
Il lean management costituisce ormai un elemento distintivo dell’Azienda ospedaliera senese. Dopo diverse esperienze all’estero Giacomo Centini, Direttore Amministrativo AOU Senese, ha portato in Italia la sua esperienza e una gestione che, nei Paesi del nord Europa, è di fatto una prassi. “In Svezia, ad esempio, da 15 anni il lean management è adottato dal sistema sanitario nazionale”, precisa. Di concerto con la Direzione sanitaria, è stato così avviato un percorso di innovazione di un’azienda sanitaria pubblica tra i più interessanti in Italia.
Concretamente, che cosa ha permesso questa gestione snella presso la vostra azienda sanitaria? L’obiettivo è la riduzione degli sprechi di tempo e denaro e la massimizzazione del tempo dedicato al paziente. In pratica, si riducono tempi e attività superflue e ci si concentra invece su quelle che producono valore per il paziente. Ancora oggi nella maggior parte delle aziende sanitarie italiane il personale tende a essere focalizzato sull’erogazione dei servizi, ma poca attenzione è prestata alla percezione, da parte del paziente, della qualità del servizio stesso. In altre parole spesso si trascura un aspetto importante come il rapporto con il medico e l’esperienza del paziente all’interno dell’ospedale.
Come è stata applicata la logica lean, nella vostra azienda ospedaliera? È stato semplice? Si è trattato di intraprendere un percorso in una logica di lungo periodo. I concetti lean sono semplici, l’importante è stimolare gli operatori ad applicarli a tutti i livelli supportando iniziative che vengano dal basso. Occorre quindi ascoltare e recepire le idee di miglioramento e snellimento delle attività proposte da tutti i livelli operativi, attività che poi possono confluire in una logica lean unitaria.
Lean management significa anche contenimento degli sprechi economici, ma non solo. Ci spiega meglio questo concetto? L’aspetto economico per noi non ha rappresentato la prima priorità, ma la conseguenza di scelte destinate a migliorare l’esperienza del paziente e la qualità delle terapie. Abbiamo individuato una gerarchia di priorità: prima di tutto servire meglio il cliente, poi costruire un ambiente lavorativo positivo per gli operatori e solo in ultima battuta ridurre i costi minimizzando gli sprechi. In ogni caso i proventi ottenuti da questo contenimento sono periodicamente reinvestiti in iniziative a favore del paziente. Una scelta importante, questa, visto che solo nel 2014 abbiamo raggiunto un contenimento quantificabile in 600mila euro, reinvestiti in alta tecnologia.
Quali sono i settori coinvolti dal lean management? «Siamo partiti dai punti di accesso principali, ovvero i settori attraverso i quali il paziente prende inizialmente contatto con l’ospedale: pronto soccorso, reparto di medicina e chirurgia. Ben presto la gestione lean ha però riguardato anche altri reparti e, tra questi, l’oncoematologia ha avuto un ruolo importante. In parallelo, sono stati attivati percorsi di formazione per i dipendenti, ormai giunti a coprire la quasi totalità del personale. Naturalmente siamo ancora in fase di sviluppo.
Il lean magament è un sistema applicabile a ogni struttura ospedaliera? Sicuramente sì. Anzi, non è più un’opportunità ma una necessità viste le ristrettezze del sistema economico in cui ci troviamo».
Il paziente al centro è quindi il nodo chiave della gestione lean in sanità. Questo significa anche miglioramenti sul versante clinico? «Certamente. Oltre a generare contenimento degli sprechi, il lean management assicura anche maggiori livelli di sicurezza terapeutica, riducendo il rischio di eventi avversi dovuti a errori. Inoltre, eliminando attività non necessarie, libera risorse e assicura più tempo a disposizione per il rapporto medico-paziente.
Quanto è stato semplice applicare il lean management, nato nell’automotive, in un’azienda sanitaria? Le difficoltà ci sono, soprattutto inizialmente: le resistenze al cambiamento sono inevitabili. Teniamo presente che è di per sé più facile applicare la metodologia lean nel privato piuttosto che nel pubblico, dove le novità sono spesso viste come una fatica da evitare. È stata fondamentale, quindi, la condivisione degli obiettivi grazie al ruolo dei lean champion nei vari reparti. Il punto è che bisogna superare gli ostacoli iniziali: dopo, la strada è in discesa. Certamente, sono i medici i più diffidenti. Tuttavia, quando si dimostra che oltre a ridurre tempi di attesa per il paziente il lean migliora notevolmente l’efficacia delle procedure cliniche, allora anche i medici accettano il cambiamento.
Ci può descrivere qualche attività lean già partita? Dal 2012 patrociniamo un concorso interno per le migliori progettualità di lean management. Finora sono stati presentati oltre 110 progetti. Ad esempio, ne abbiamo avviato uno per la gestione in pronto soccorso del paziente ortopedico che ha permesso di ridurre a 40 minuti il tempo di permanenza in ospedale. Nella Stroke unit, invece, grazie a una gestione più snella, siamo scesi di 30 minuti sul door-to-needle, salvando miliardi di neuroni ai nostri pazienti. Miglioramenti anche in terapia intensiva, con una netta riduzione dei casi di infezione ospedaliera.
Con le verdi vallate e le cime innevate, la montagna è un territorio affascinante, ma va vissuto con prudenza ed esperienza. È un ambiente per guide alpine, alpinisti e sciatori. Diverse, infatti, le attività che vengono svolte in alta quota, e diverse possono essere le problematiche da affrontare per un’adeguata tutela della salute e della sicurezza.
Per migliorare la preparazione personale, la consapevolezza dei rischi e le tecniche di autosoccorso nei frequentatori della montagna invernale, domenica 15 gennaio 2017 il Club alpino italiano e il Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico organizzano “Sicuri con la neve”, la giornata nazionale di sensibilizzazione e prevenzione degli incidenti tipici della stagione invernale. Piemonte, Lombardia e Toscana sono le regioni con il maggior numero di appuntamenti, che si rivolgono a tutti gli sciatori ed escursionisti.
Come nelle passate edizioni, in decine di località montane di 16 regioni italiane sono organizzati convegni, presidi dei percorsi scialpinistici ed escursionistici, con la diffusione di utili consigli e la raccolta di dati statistici, allestimenti di stand informativi e campi neve, con dimostrazioni di ricerca con l’Artva e con le unità cinofile, e di autosoccorso in valanga.
“Un’adeguata formazione dei frequentatori della montagna e la prevenzione dei possibili infortuni sono da sempre tra le priorità per le quali il CAI (Club Alpino Italiano) e il Soccorso alpino operano con maggior impegno – afferma Vincenzo Torti, Presidente generale del CAI –. La costante ricerca di una ragionevole sicurezza per gli amanti delle terre alte è l’obiettivo sotteso a giornate come questa, con cui intendiamo promuovere l’attenzione sui possibili rischi cui si va incontro in montagna e ridurli, così, al minimo”.
La giornata “Sicuri con la neve”, compresa nel progetto “Sicuri in montagna”, è organizzata con la collaborazione delle Scuole di Alpinismo e Scialpinismo, delle Commissioni e Scuole Centrali di Escursionismo, Alpinismo Giovanile, Fondoescursionismo del CAI, del Servizio Valanghe Italiano, della Società Alpinistica F.A.L.C., con il supporto di enti e amministrazioni che si occupano di montagna.
Lei è la storica maison francese Louis Vuitton, che dal 1854 accompagna generazioni di viaggiatori all’insegna del lusso con bauli e borse ornate dal celebre monogramma.
Lui è UNICEF, il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia nato nel 1946. Insieme annunciano la prima campagna #MakeaPromise, una raccolta fondi destinata ai bambini bisognosi.
Il simbolo dell’unione e dell’impegno è il Lucchetto Silver Lockit, un gioiello disponibile come pendente, e come bracciale. Si può acquistare in tutte le boutique Louis Vuitton e online a partire dal 12 gennaio.
Per ciascun bracciale e pendente venduto, saranno donati 200 euro a sostegno dei progetti che l’UNICEF porta avanti per salvare i 250 milioni di bambini esposti a conflitti, catastrofi naturali, ed epidemie a rapida diffusione, tutte situazioni che mettono a rischio la loro sicurezza e il loro stato di salute.
Nel gennaio 2016, la collaborazione a fini benefici ha contribuito a raccogliere 2,5 milioni di dollari, per aiutare 4,5 milioni di bambini e le loro famiglie in Siria attraverso la fornitura di acqua pulita e potabile.
Celebrities, influencers e stampa hanno dato il proprio personale contributo per aiutare i bambini di tutto il mondo in situazioni di emergenza, aderendo all’iniziativa digitale #MakeAPromise attraverso la condivisione sui social network della propria fotografia scattata da Stefano Guindani.
La casa di moda parigina e UNICEF rinnovano, così, la promessa di portare speranza di una vita migliore ai fanciulli che affrontano ogni giorno realtà piene di violenze, persecuzioni e insidie.
Mentre lo versiamo crepita, scoppietta. L’effervescenza sussurra, bisbiglia, freme, è un brivido, un fruscio. Le bollicine esplodono, risuonano.
Ai nostri occhi il liquido ribolle, vive, si agita. Le bollicine sono minuscole o medie, regolari, incolonnate, raggruppate, delicate, leggere, lente o veloci, nervose, vorticose, piroettanti. Gli occhi ne seguono il movimento, l’incessante ascesa, valutano la finezza e la bellezza della corona, il “collier di perle” che si forma in superficie giocando con la parete del bicchiere.
“Lo Champagne è un prodotto ormai ‘eternalizzato’ ma lo si può scoprire sempre da una nuova angolazione e lo si può condividere insieme ogni volta in modo diverso”, afferma Vincent Perrin, Direttore Generale del Comité Champagne, durante il 40° anniversario del Bureau du Champagne, l’ufficio che rappresenta in Italia la denominazione del celebre vino.
Il Bureau du Champagne è presente in 15 mercati. Insieme all’Italia, ne fanno parte: Germania, Austria, Belgio, Cina, Stati Uniti, Giappone, Lussemburgo, Paesi Bassi, Regno Unito, Spagna, India, Russia, Svizzera e Australia. In Italia, settimo mercato al mondo (Francia esclusa), nel solo 2015 sono giunte 6,3 milioni di bottiglie.
Il Bureau nasce nel maggio del 1976 su iniziativa del Comité Champagne, l’interprofessione che riunisce tutte le Maison e tutti i Vigneron della Champagne.
Le missioni fondamentali del Bureau, oggi diretto da Domenico Avolio, riguardano la difesa della denominazione e le attività di formazione in Italia. Nel corso di questi primi 40 anni, il Bureau ha mantenuto aperto il dialogo con i professionisti del vino, i formatori, i giornalisti, ed è diventato un punto di riferimento per quanti, anche tra gli appassionati, desiderano avvicinarsi al mondo dello Champagne.
Il Comité Champagne, con sede a Epernay, è un’organizzazione interprofessionale, strumento di sviluppo economico, tecnico e ambientale. Il Comité mette due professionalità, quella delle Maison e quella dei Vigneron, in relazione tra loro e conduce una costante politica di qualità e di valorizzazione del patrimonio comune. Dal 2015 Coteaux, Maison e cantine della Champagne sono parte del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO.
Cru, vini, annate, dosage, esprimono la diversità degli Champagne. Il cru, che corrisponde a un comune viticolo, identifica la particolare combinazione di vitigno, terroir e clima. Esistono 320 cru e 278 mila particelle che posseggono una specifica identità. “Lo Champagne è un frutto straordinario determinato da una variante di fattori – precisa Marco Chiesa, ambasciatore dello Champagne in Italia –. La denominazione di origine controllata Champagne è unica, ma i vini della Champagne offrono una moltitudine di sfaccettature. La diversità dei Cru, delle particelle, dei vitigni, dei millesimi, degli assemblaggi, dei tempi di maturazione permettono di creare stili differenti”.
L’anniversario del Bureauè stato celebrato il 13 dicembre, con un’originale degustazione e un brindisi, a Milano presso Palazzo Parigi alla presenza di Olivier Brochet, Console generale di Francia a Milano, Vincent Perrin e Thibaut Le Mailloux, rispettivamente Direttore generale e Direttore della comunicazione del Comité Champagne.La degustazione è stata magistralmente condotta da Marco Chiesa che con originalità ha pensato di associare i vari Champagne alla musica classica e rock, alle opere dei grandi pittori, agli stati d’animo, ai paesaggi. Così, ad esempio, L’Âme de la Terre di Françoise Bedel del 2004 sarebbe come la musica “impressionista” di Debussy, che traduce sulle tele e nella musica “le impressioni”. Il Saint Gall De Orpale Blanc de Blancs del 2002, persistente e con grande personalità, potrebbe richiamare un pezzo rock dei Pink Floid, e la Cuvée R. Lalou G.H Mumm del 2002, Champagne roccioso, solido e intenso, se fosse uno stato d’animo sarebbe passione, se fosse rock sarebbe Eavy Metal, se fosse musica classica sarebbe un brano di Bach: perfezione tecnica e sonorità austere. Il Piper-Hedisieck Rare del 2002 possiamo paragonarlo alle imponenti opere di Wagner, e il Bollinger R.D. del 2002, che ritorna in bocca ogni volta diverso, potrebbe essere accostato alla musica dei Queen.
Sotto il palato le perle cristalline dello Champagne esplodono, esaltano il loro sapore acidulato: gusti forti e soavi, profumati di fiori bianchi, di frutta matura, di legni esotici. Sono come i brani, o gli accordi di un’orchestra sinfonica che giocano sui tempi forti e poi su quelli lenti e dolci, eseguiti nella calma e nell’armonia. Sono come i diversi strumenti musicali di un complesso rock. Eccitazione, pienezza, calma, tre momenti che si sommano per un piacere puro. Lo Champagne chiama in causa tutti i nostri sensi.
“Noi Stasera non abbiamo bevuto Champagne, abbiamo vissuto un momento, un’atmosfera. Abbiamo viaggiato nel tempo e tra la musica… Alla prossima bottiglia di Champagne chiudete gli occhi e accendete la fantasia”, conclude così Marco Chiesa.
Clementina Speranza
ELABORAZIONE DELLO CHAMPAGNE
Il vigneto riposa su uno spesso strato gessoso, depositatosi nell’Era Secondaria. Questo gesso, di una qualità particolare, offre allo Champagne una culla incomparabile. Non solo perché il vino cresce nelle sue profondità, al riparo dalla luce e dal rumore, a una temperatura costante, in cantine la cui rete sotterranea si estende per oltre 250 km, ma anche perché esso dona alla vigna il meglio di sé: immagazzina per poi restituire il calore e l’umidità, nutre e protegge i ceppi delicati, regala grande originalità alle uve e in parte spiega il perché di un’elaborazione così complessa come quella del vino che ne risulta.
La temperatura media annuale della regione viticola non supera gli 11° C, limite massimo sotto il quale l’uva non matura più. Le vigne sono basse, la potatura corta: non si deve sprecare né calore, né linfa. Paradossalmente proprio queste condizioni difficili sono le più appropriate a dare grappoli di una qualità adeguata alle grandi esigenze dello Champagne.
Una lunga esperienza ha identificato il perfetto accordo di alcuni vitigni con il suolo e il clima della Champagne. Si tratta dello Chardonnay, che dona uve bianche, del Pinot Noir e del Pinot Meunier, che regalano invece uve nere. Il primo conferisce al vino leggerezza e freschezza; il secondo corposità e longevità e il terzo sentori di frutti e vivacità.
Questi tre vitigni sono i soli autorizzati dalla legge.
La vigna è delicata, esigente e pretende un’attenzione costante. Mille pericoli la minacciano: le gelate, i temporali, le malattie, i parassiti possono distruggere le speranze di un intero anno di lavoro. Malgrado le cure meticolose del vignaiolo, innumerevoli imprevisti possono causare una catastrofe, perché è necessaria la coincidenza di diversi elementi favorevoli per ottenere un buon raccolto.
Durante la vendemmia, i grappoli vengono raccolti a mano e trasportati alla pressa con estrema cautela. Da 4 mila chili d’uva si ricavano 2.250 litri di mosto, che corrispondono a 102 litri di succo per 160 chili d’uva.
Il vino nasce in cantina quando il mosto viene trasferito in fusti o botti. Una prima fermentazione avviene grazie alla trasformazione dello zucchero in alcol. Dopo alcuni mesi quando questa fermentazione è terminata e il vino è divenuto chiaro si compone la “cuvée”. L’abilità consiste nel creare un insieme armonioso ed equilibrato abbinando vini di annate, vitigni e cru differenti. Ogni maestro di cantina custodisce gelosamente il segreto delle proporzioni che danno al suo vino un gusto particolare e lo distinguono da quello dei colleghi. È straordinario notare come la qualità di questo felice assemblaggio sia sempre superiore alla somma delle qualità di ciascun componente.
Se il vino di un solo raccolto è davvero notevole, si può elaborare la cuvée con il solo vino di quell’annata: lo Champagne sarà allora “millesimato”. Se il vino è nato esclusivamente da uve bianche di vitigno Chardonnay, viene definito “blanc de blancs”. Se è nato solo da Pinot Noir e Meunier, sarà allora un “blanc de noir”.
Una volta creata la cuvée si procede all’imbottigliamento. Durante questa operazione, definita “tirage”, vengono aggiunti al vino lieviti naturali e una piccola quantità di zucchero. Le bottiglie vengono poi tappate e ha inizio la seconda fermentazione, molto più lenta rispetto alla prima. Poco a poco nel fresco silenzio delle cantine il vino fermo prende spuma e sviluppa i propri aromi.
La permanenza in cantina dura minimo 15 mesi, ma più spesso trascorrono diversi anni, che contribuiscono a determinare la finezza della spuma e il bouquet del vino.
Nel corso della seconda fermentazione, che dura dalle 6 alle 8 settimane, i lieviti consumano lo zucchero e liberano nel vino, oltre all’alcol e l’anidride carbonica, esteri e alcoli superiori, che contribuiscono anch’essi a definire le caratteristiche sensoriali del vino.
Durante la seconda fermentazione in bottiglia si forma un deposito che è necessario eliminare. Appoggiate sui “pupitre” (cavalletti) o su “palette”, le bottiglie vengono ruotate ogni giorno nell’arco di parecchie settimane. Quest’operazione, che prende il nome di “remuage”, fa scivolare progressivamente il deposito verso la superficie interna del tappo.
Con il “degorgement” si espelle questo deposito. Dal momento che l’operazione comporta l’uscita di un po’ di vino dalla bottiglia, si aggiunge un volume uguale di Champagne, contenente una piccola quantità di zucchero di canna, la cui proporzione varia a seconda del tipo di vino che si desidera ottenere (brut, sec o demi-sec). Infine la bottiglia è sigillata con un tappo definitivo, trattenuto da una solida gabbietta e vestita della sua etichetta, di un collare e di una capsula costituita da un foglio di stagno.
Comité Interprofessionnel du Vin de Champagne
Il Comité Champagne è un organismo creato dalla legge francese del 12 aprile 1941 per gestire e difendere gli interessi comuni dei viticoltori e delle Maison di Champagne.
Il Comité Champagne organizza le relazioni tra vigneron e maison per l’acquisto e la vendita delle uve, registra tutte le transazioni e gestisce la riserva qualitativa regolando così il mercato e assicurando l’indispensabile equilibrio tra domanda e offerta. Il Comité Champagne gestisce le relazioni con le istituzioni amministrative francesi e della Comunità Europea, lavora per rafforzare la presenza internazionale dei vini di Champagne e lotta contro le barriere commerciali per facilitare le esportazioni in tutti i paesi del mondo.
I Servizi Tecnici del Comité Champagne sviluppano programmi di ricerca in viticultura e enologia all’avanguardia. Ogni anno vengono realizzate circa 200 sperimentazioni in tutta la regione in ogni settore: dalla climatologia alla lotta anti-parassitaria, dalle tecniche colturali ai progetti di zonazione, dal controllo dei processi di fermentazione. I Servizi Tecnici operano sia con mezzi propri ma collaborando fianco a fianco anche con partner esterni, sostenendo la filiera attraverso un’attività di consulenza ai vigneron e ai vinificatori e organizzando attività di informazione anche con la pubblicazione di documenti tecnici.
Un’altra delle missioni del Comité Champagne è la valorizzazione dei vini di Champagne e il rispetto della loro identità. Il dipartimento Denominazione e comunicazione crea e diffonde una molteplicità di strumenti per far conoscere i vini di Champagne. Inoltre organizza eventi rivolte a professionisti del vino, giornalisti e formatori organizzando visite personalizzate per la stampa o gruppi di professionisti.
Il Comité Champagne dispone di una rete, caso unico nel panorama vinicolo, di 15 uffici in tutto il mondo che garantiscono le relazioni con i media e sviluppano azioni di comunicazione e di difesa della denominazione calibrate sui diversi mercati. La tutela della denominazione Champagne è una prerogativa fondamentale del Comité Champagne attraverso azioni sistematiche contro tutti coloro che compromettono la notorietà e l’identità della denominazione. Ogni anno, il Comité Champagne lotta contro centinaia di usi abusivi del nome Champagne: dagli spumanti ai prodotti di bellezza, dalla birra ai generi alimentari.
L’hotel Quisisana di Capri con lo chef Stefano Mazzone, Villa d’Amelia con Damiano Nigro, l’hotel 5 stelle Capri Palace con l’esecutivo chef Andrea Migliaccio, il ristorante La Madia di Pino Cuttaia, il ristorante Dulcis Vitis diretto dallo chef della natura Bruno Congolani, i ristoranti 1 stella Michelin Aqua Crua di Giuliano Baldessarri e Ma.ri.na di Pino Possoni a Olgiate Olona. E poi ancora, a Trapani, il ristorante Serisso 47 di Gaetano Basiricò e a Milano l’Osteria Cavallini sono luoghi esclusivi dove gustare deliziosi manicaretti. Cosa accomuna tutti questi paradisi della ristorazione? Un prodotto dal sapore siciliano: l’olio extravergine d’oliva U TRAPPITU di Ceuso Lara, l’oro della tavola. Siamo nel piccolo borgo di Guarrato in una località che si chiama Misiliscemi, da MisilShemir che significa casa di Shemir, ovvero casa dell’arabo che si stabilì in queste terre e diede il suo nome a differenti contrade. Qui sorge l’azienda agricola trapanese le Terre di Shemir, un nome che evoca tradizione, cultura e integrazione. “L’azienda nasce il 19 febbraio 1996, quando con la famiglia mi sono traferito da Como alla Sicilia e, da Ispettore di Polizia, ho riscoperto la passione per l’agricoltura, coltivata fin da bambino quando aiutavo il nonno e gli zii nella loro azienda agricola”, racconta Francesco Pellegrino marito di Lara Creuso, titolare dell’azienda. Qui, a 110 metri sul livello del mare, si estende un terrazzamento di 37,5 ettari affacciati sulle isole Egadi con 3 mila alberi d’ulivo. Le piante vengono potate ogni anno, le olive sono raccolte a mano, e il terreno è lavorato in modo tale da evitare la comparsa di crepe. “I capillari degli alberi viaggiano nel sottosuolo in maniera orizzontale, e quando si formano delle fessure a causa del caldo la pianta si disidrata, facendo seccare le olive – spiega il proprietario dell’azienda –. Per evitare il problema e per donare al frutto l’acqua di cui necessita, effettuiamo quindi l’irrigazione ogni volta che gli ulivi entrino in sofferenza”.
Il terreno è concimato con lo stallatico di mucche e vitelli: viene inizialmente accatastato per farlo maturare, ed è poi utilizzato ogni tre anni per nutrire le piantagioni. “Noi rispettiamo ogni pianta come se fosse un essere vivente – puntualizza Pellegrino –. Coltiviamo gli ulivi con metodi naturali: niente azoto chimico, ma esclusivamente acqua, concime, forbici e vitamine per crescere un ulivo sano. Quello che l’albero riceve lo restituisce in termini di quantità e qualità”. Perché sia salutare, l’olio extravergine deve rispondere a determinati requisiti, e lo scorso anno l’azienda siciliana ha avuto gravi difficoltà a causa delle condizioni climatiche avverse e dell’attacco della mosca olearia. “Un’invasione che abbiamo combattuto con prodotti di origine biologica per rispettare le proprietà delle olive, evitando l’ossidazione, causa dell’acidità dell’olio. Un buon olio extravergine deve possedere un’acidità inferiore allo 0,2%, e deve essere ottenuto dalla prima spremitura dei frutti con procedimenti meccanici, senza interventi chimici”, precisa Pellegrino.
Le tre etichette del brand sono ricavate con un ciclo di estrazione continuo a freddo. Iré, dal colore giallo oro con riflessi verdi, si abbina a verdure, carni rosse, tonno, pesce spada e intingoli dai sapori decisi, ed è ottenuto dall’unione di due cultivar: 60% di Nocellara del Belice e 40% di Cerasuola. Realizzato con l’80% di Biancolilla e il 20% di Cerasuola, U Trappitu – Delicato dal gusto dolce e cremoso, gentile e persistente, è adatto per: verdure, piatti delicati dalla cottura limitata, pesce crudo e bollito. U Trappitu – Intenso è stato ideato mixando tre cultivar 10% Nocellara del Belice, 30% Biancolilla, e 60% Cerasuola. Ha un sapore fruttato, intenso, di aroma piccante e gusto amarognolo, che si posa con: verdure, tonno, carni rosse, pesce spada e intingoli dai sapori decisi.
I tre oli prodotti dalle Terre di Shemir hanno vinto diversi premi e sono esportati in tutto il mondo: dall’Inghilterra alla Svizzera tedesca, dalla Germania alla Svezia, ai Paesi arabi… Un commercio favorito, anche, dalla catena Eataly di Oscar Farinetti. L’oro di Sicilia è arrivato fino al re dell’Arabia Saudita, Salman, che ne ha ordinato 1.500 bottiglie In una terra in cui il senso della storia emerge chiaro e forte, con uno scenario in grado di donare straordinarie emozioni, l’azienda di Lara Creuso produce un olio capace di arricchire, con i colori e con i profumi della Sicilia, le tavole nel mondo.
Clementina Speranza e Simone Lucci
Premi e Riconoscimenti
Iré 2016 – Diploma Distinzione Concorso “L’orciolo d’Oro”
2016 – Diploma Menzione di Merito Concorso “Sirena d’Oro”
2013 – Diploma Gran Menzione Concorso “L’orciolo d’Oro”
2012 – Diploma Gran Menzione Concorso “L’orciolo d’Oro” U Trappitu – Delicato
2016 – Diploma Distinzione Concorso “L’orciolo d’Oro”
2016 – Premio Slow Food Grande Olio
2013 – Diploma Distinzione Concorso “L’orciolo d’Oro”
2013 – Finalista Concorso “Ercole Olivario”
2012 – Diploma «Best in Sicily» Miglior Produttore di Olio – Cronache di Gusto
2012 – Finalista Concorso “Ercole Olivario”
2012 – Diploma Gran Menzione Concorso “L’orciolo d’Oro”
2011 – Diploma Distinzione Concorso “L’orciolo d’Oro”
2010 – Diploma Gran Menzione Concorso “L’orciolo d’Oro”
2010 – Diploma «Best in Sicily» Miglior Produttore di Olio – Cronache di Gusto
2008 – Diploma Gran Menzione Concorso “L’orciolo D’oro”
2007- Diploma Gran Menzione Premio Frinschmercker
2006 – Diploma Gran Menzione Premio Frinschmercker
2006 – Diploma di Gran Menzione Leone d’Oro Maestri Oleari
2005 – Premio Slow Food
2004 – Premio Der Feinschmecker
2000 – I° classificato Gran Yuri Europèen di Parigi
1999 – I° classificato Gran Yuri Europèen di Merano
1999 – Diploma di Gran Menzione Sol di Verona U Trappitu – Intenso
2016 – 2° Classificato Concorso “L’orciolo d’Oro”
2016 – Finalista Concorso “Ercole Olivario”
2016 – Silver Olive 15th International Olive Award Zurich
2014 – Finalista Concorso “Ercole Olivario”
2013 – Diploma Distinzione Concorso “L’orciolo d’Oro”
2013 – Finalista Concorso “Ercole Olivario”
2013 – Silver Olive 12th International Olive Award Zurich
2012 – 2° Classificato Concorso “L’orciolo d’Oro”
2012 – Golden Olive 11th International Olive Award Zurich
2011 – Finalista Concorso “Ercole Olivario”
2011 – Diploma Gran Menzione Concorso “L’orciolo d’Oro”
2011 – Award 10th International Olive Award Zurich
2011 – Bronze Medal Award Los Angeles International Oil
2011 – II° Classificato Premio Frinschmercker
2010 – Diploma «Best in Sicily» Miglior Produttore di Olio
2008 – Silver Medal Award Los Angeles International Oil
2008 – 1° Classificato Premio Internazionale “Ercole Olivario”
2008 – 1° Classificato al 1° Concorso Bonolio
2008 – Golden Olive 7 Th International Olive Award Zurich
2008 – Diploma Gran Menzione Concorso “L’orciolo D’oro”
2008 – Diploma Gran Menzione Premio Frinschmercker
2007 – Diploma Gran Menzione Premio Frinschmercker
2007 – 2° Classificato Concorso “L’orciolo d’Oro”
2007 – Silver Olive 6th International Olive Award Zurich
2006 – Diploma Gran Menzione Leone d’Oro Mastri Oleari
2006 – Diploma Gran Menzione Premio Frinschmercker
2005 – Diploma Gran Menzione Premio Frinschmercker
2005 – Diploma Gran Menzione Leone d’Oro Maestri Oleari
2005 – I° Classificato Premio Internazionale Ercole Olivario
2005 – I° Premio Regionale Union Camere – Palermo
2004 – Diploma di Gran Menzione Leone d’Oro Mastri Oleari
2004 – Diploma Gran Menzione Premio Frinschmercker
2000 – II° Classificato Gran Yuri Europèen di Parigi
1999 – Diploma Gran Menzione Sol di Verona
1999 – I° Premio Daunia DOC di Foggia
1998 – Leone d’Oro Sol di Verona
1997 – Diploma Gran Menzione Sol di Verona
Nella disciplina dermatologica si possono riscontrare alcune malattie che presentano un quadro infiammatorio di tipo cosiddetto immuno-mediato. Si tratta di affezioni ad andamento cronico, talvolta associate a disturbi di tipo reumatologico e/o gastroenterologico, che possono essere molto invalidanti e determinare una seria alterazione della qualità di vita dei pazienti che ne sono affetti.
Ciò che accomuna queste patologie è la presenza di uno stato infiammatorio cronico determinato da meccanismi di tipo immunologico che risultano alterati, ma la cui causa non è ancora ben chiarita.
La più frequente tra queste malattie con manifestazioni cutanee è certamente la psoriasi, ma in misura minore sono di riscontro dermatologico anche altre patologie, come l’eritema nodoso, il pioderma gangrenoso, la sindrome di Sweet e le afte a livello della mucosa orale. Tali affezioni sono infatti spesso accomunate da una serie di fattori patogenetici importanti, il cui meccanismo d’azione è comune alle stesse vie metaboliche, che presentano simili fattori precipitanti o aggravanti, come infezioni o traumi, e che sono sotto l’influenza degli stessi fattori genetici. La psoriasi è una dermatosi con una prevalenza del 2% sulla popolazione mondiale, e le sue molteplici manifestazioni cutanee, quali quella volgare, guttata, inversa, pustolosa, artropatica, ecc., possono talvolta essere molto estese sulla superficie cutanea. Ciò comporta un’influenza molto negativa sulla vita di relazione dei pazienti. Oggi è ormai noto inoltre che la malattia psoriasica implichi anche la presenza di una serie di comorbidità, ovvero l’insorgenza di malattie di altri distretti corporei che si influenzano vicendevolmente. Tali patologie che si associano più frequentemente sono l’ipertensione arteriosa, il diabete mellito tipo II, le dislipidemie, l’obesità e un rischio più elevato di incidenti cerebrovascolari. Infine è necessario non dimenticare la possibilità d’insorgenza di un’eventuale depressione conseguente alla patologia cutanea, una maggiore tendenza all’alcolismo e alle dipendenze, come dimostrato dai diversi questionari di valutazione.
Anche per quanto riguarda il trattamento, ci sono elementi in comune tra le malattie infiammatorie immunomediate, che rispondono nella maggior parte positivamente alle terapie con i farmaci biologici di recente avvento. I farmaci biologici in molti casi hanno soppiantato le terapie tradizionali, che comportavano risultati generalmente modesti, e non cambiavano le prospettive di benessere dei pazienti, soprattutto nei casi più gravi e nel lungo termine. L’impiego dei farmaci biologici ha radicalmente modificato la gestione di tali malattie, consentendo di risolvere le condizioni e le complicanze cliniche più complesse e portando all’identificazione di nuovi traguardi terapeutici, volti a modificare la storia naturale di queste patologie.
La particolare complessità di tali affezioni, la notevole influenza delle une sulle altre, sia dal punto di vista clinico che patogenetico, la comparsa di effetti collaterali ai farmaci tradizionali e a quelli più innovativi e soprattutto l’urgenza e la necessità di incentrare sul paziente e non più solo sulla malattia l’approccio medico, hanno reso imprescindibile un’integrazione operativa molto stretta tra tutti i diversi specialisti coinvolti e a cui è affidata la cura di questi pazienti. L’utilizzo di tali molecole ha rimesso in gioco alcune considerazioni sull’effetto terapeutico e sugli eventi avversi nei due generi, uomo e donna.
Alcuni studi infatti suggeriscono differenze di genere rilevanti e relative all’essere ammalati di psoriasi. In una donna si evidenziano ancora una volta l’importanza della distinzione e dell’autostima. Nel considerare le novità a proposito di psoriasi e donna è opportuno ricordare che questo argomento si inserisce a pieno diritto nell’ambito della medicina di genere che distingue in campo medico in generale e quindi specialistico dermatologico. Le donne presentano un inizio di malattia più precoce e sono più colpite nell’infanzia e dopo la sesta decade. Le donne percepiscono una maggiore severità della patologia psoriasica rispetto agli uomini e pertanto l’impatto sintomatico risulta maggiore a parità dell’oggettività del quadro clinico della malattia.
Anche i questionari sulla qualità di vita somministrati ai soggetti di sesso femminile ne confermano l’evidenza, poiché le pazienti riferiscono di sentirsi meno attraenti e meno sicure di loro stesse e spesso si rifugiano nel cibo e nell’alcool. Inoltre subentra anche la paura che la patologia venga trasmessa ai figli.
È intuitivo che in queste persone risulti alterata anche la sfera sessuale, soprattutto a causa di un’elevata riduzione dell’autostima. Spesso al medico vengono richieste anche suggerimenti per nascondere la patologia soprattutto sul viso e sulle mani e a tal proposito è utile segnalare la possibilità di utilizzare prodotti dedicati, con azione coprente e correttiva (camouflage o maquillage correttivo).
In un recente studio brasiliano sono state analizzate le disfunzioni sessuali dei pazienti psoriasici in relazione alla distribuzione topografica delle lesioni cutanee. Esso ha evidenziato una correlazione positiva tra pattern distributivo della psoriasi nelle aree di interesse sessuale (regione genitale e addominale) e i sintomi di ansia e depressione.
Va considerato che nell’arco della vita ben il 38% dei pazienti può presentare la psoriasi a livello dell’area genitale e che questa può comportare sintomi talvolta molto gravi, come prurito, dolore e dispareunia (dolore vaginale durante l’atto sessuale), ridotta frequenza dei rapporti sessuali e peggioramento della patologia dopo di essi: la reazione depressiva e ansiosa risulta dunque essere una conseguenza molto spesso correlata a tali situazioni patologiche.
Per quanto riguarda la disfunzione erettile nell’uomo, sembra essere più frequente in quadri di psoriasi genitale lieve, ma quando si presenta in una psoriasi moderata o grave è spesso associata con depressione, ansia e abuso di nicotina.
In seguito a tali riscontri, negli ultimi anni i pazienti hanno cominciato a richiedere sempre di più allo specialista un’attenzione maggiore anche di tutti gli aspetti che riguardano la sfera sessuale e relazionale. Tale dato è infatti emerso dai numerosi studi che recentemente sono stati condotti sull’argomento. A tale proposito è stato elaborato un interessante strumento visivo, lo Psodisk, che il medico stesso compila insieme al paziente. Vengono assegnati punteggi da 1 a 10 a vari aspetti legati alla malattia, come per esempio lo stato di salute, il dolore, il prurito, la vita sociale e sessuale, il sonno, il lavoro, emozioni quali la vergogna, ecc. Tale pratica, oltre a favorire la comunicazione medico-paziente in questioni delicate, permette al medico di attuare un follow up nel tempo della situazione globale del paziente, mentre al paziente consente di avere un riscontro anche visivo del proprio stato di salute.
In generale si può affermare che le disfunzioni sessuali nella psoriasi aumentino con l’età, con la gravità della malattia e che siano un poco più frequenti nel sesso femminile. Inoltre esse sono più frequenti in presenza di artrite psoriasica, con il coinvolgimento delle regioni genitali e sono spesso accompagnate da alterazioni importanti dell’umore. Controverso è invece il ruolo giocato dalle comorbidità, ma è certo che l’avvento dell’uso dei farmaci biologici ha migliorato anche l’aspetto della funzione sessuale.
Dermatologhe Milano
Sabine Pabisch, Alessandra Maria Cantù
Corrinna Rigoni, Presidente dell’Associazione DDI (Donne Dermatologhe Italia)
Bibliografia: “Body image among men and women in a biracial cohort: the CARDIA study” Smith DE et al. Int J Eat Disord 1999 “Distribution pattern of psoriasis, anxiety and depression as possible causes of sexual dysfunction in patients with moderate to severe psoriasis” Molina-Leyva A, Almodovar-Real A, Carrascosa JC, Molina-Leyva I, Naranjo-Sintes R, Jimenez-Moleon JJ. An Bras Dermatol. 2015 May-Jun;90:338-45. “Genital psoriasis is associated with significant impairment in quality of life and sexual functioning” Ryan C et al.J Am Acad Dermatol. 2015 Jun; 72:978-83
L’inverno è il periodo più delicato per la salute della pelle. Quando le temperature diminuiscono, i vasi sanguigni si restringono e l’ossigeno che giunge ai tessuti cutanei è inferiore, rendendo, così, la pelle meno elastica, e più soggetta a dermatiti e arrossamenti. Il vento e le temperature rigide non sono la sola causa della disidratazione. Il problema è legato anche da altri fattori esterni: il riscaldamento e lo smog.
Per fronteggiare le situazioni d’emergenza causate dal clima invernale, giungono in soccorso due cosmetici naturali per il mantenimento del bell’aspetto e della salute cutanea di grandi e piccini. S.O.S. FREDDO MANI e CORPO, e S.O.S. FREDDO LABBRA sono gli affidabili alleati per contrastare screpolature e arrossamenti ideati da Cosm-etica.
Le labbra sono, infatti, una delle parti del corpo più delicate e, allo stesso tempo, una delle più esposte all’azione degli agenti esterni. Per le sue preziose virtù emollienti e nutrienti, un valido aiuto biologico giunge dal burrodi Karité ricavato dalle noci dell’omonima pianta che può raggiungere un’altezza compresa tra i 10/15 metri, e poi inserito in S.O.S. FREDDO LABBRA. La preziosa e morbida crema è pensata per aiutare le labbra e l’epidermide, in quanto il cosmetico è un concentrato di proprietà terapeutiche utili in caso di: acne, dermatiti, eczema, herpes labiale e rughe.
Per proteggere, invece, mani e corpo, Cosm-etica formula una crema multifunzione di natura vegetale a base di olio di Argan, Aloe, burro di Karité e olio di oliva da agricoltura biologica. S.O.S. FREDDO MANI e CORPO è uno speciale ritrovato ideale per la protezione della cute dal freddo e dagli agenti atmosferici. Tramite gli oli essenziali naturali, la crema unisce i principi dell’aromaterapia con quelli della floriterapia, aiutando a riequilibrare il corpo a livello emozionale ed energetico, per un benessere completo.
I kit S.O.S. FREDDO consentono ad adulti e bambini di affrontare le basse temperature senza paura.
Natale è un momento magico. Le tavole si arricchiscono di gustosi manicaretti tradizionali, di carne, di pesce, oppure vegetariani. Un ruolo ghiotto è svolto dal dolce, che conclude i pranzi e le cene durante le festività, e accompagna i brindisi. Forme, colori e gusti differenti in base alla regione di provenienza: il panettone a Milano, il pandoro a Verona, il torrone a Cremona, il panforte a Siena, il panspeziale a Bologna e il Dolce Firenze, una prelibatezza tipica del capoluogo toscano.
Prodotto per la prima volta alla fine degli anni ’80, Dolce Firenze nasce da un’idea di Gabriella Lombardini, titolare insieme al marito Leandro Alessi della cantina Cennatoio a Panzano nel Chianti Classico.
Di ritorno da un viaggio in Austria, Gabriella Lombardini riflette sul legame simbiotico tra Vienna e la Sachertorte, e nota che non esiste un alter ego dolciario a Firenze, che la rappresentasse in modo così inequivocabile. Da quel momento sono iniziate riflessioni e ricerche, fino a quando non si è giunti a un’altra donna forte, originale e amante della cultura gastronomica: Caterina dè Medici. Una delle ricette amate dalla sposa di Enrico II Orleans è, infatti, il Berlingozzo, il dolce di Carnevale il cui nome deriva da Berlingaccio che indica il Giovedì Grasso, l’ultimo giorno dedicato ai piaceri della tavola prima della Quaresima in cui è concesso, come direbbero i fiorentini, berlingare (divertirsi).
Dalla texture morbida ed elastica, il dolce era diffuso già nel 1400 e, secondo quanto riportato dalle cronache del tempo, era consumato come antipasto. Ed è proprio a questo manicaretto carnevalesco che si ispira il Dolce Firenze, inizialmente donato come omaggio ai clienti della cantina Cennatoio, e oggi commercializzato all’interno dell’Opificio Fiorentino, un locale di recente apertura gestito da Emiliano Alessi, figlio dei coniugi Alessi.
“Burro, zucchero, farina di frumento, uova fresche, latte parzialmente scremato, burro di cacao, sale marino integrale di Cervia, pasta di arancia, scorze d’arancia e lievito madre sono alcuni ingredienti che rendono il dolce versatile, soffice e grintoso – precisa Emiliano Alessi –. Gli alimenti contenuti rispecchiano totalmente la ricetta originale affidata in passato a uno stabilimento piemontese che utilizzava un lievito madre di 65 anni e di proprietà di amici della nostra famiglia”.
Le origini toscane del dolce sono rievocate, anche, dal caratteristico packaging. “La confezione è un omaggio appassionato a Firenze, in quanto riprende le caratteristiche dell’antico stemma fiorentino: un giglio rosso su sfondo bianco. Al contrario della blasonatura attuale, anticamente i colori erano invertiti, si narra, infatti, che nel 1251 i Guelfi per dare un segnale di cambiamento e di continuità scelsero il colore rosso per il giglio”, puntualizza Emiliano Alessi.
Il dolce fiorentino è adatto ad accompagnare i brindisi durante le feste. Con quali vini? “Come abbinamento più tradizionale il Vinsanto Occhio di Pernice di Cennatoio, mentre per un accostamento originale consiglio uno Champagne Demi-Sec, nel caso specifico Champagne José Ardinat Cart d’Or Demi-Sec (100% Pinot Meunier)”, suggerisce Claudia Bondi, affascinante e raffinata sommelier.
Sono sempre più diffuse le modelle dalla taglia 46 in su. Décolleté prosperosi, fianchi generosi e gambe tornite è il modello di bellezza sempre più diffuso sulle passerelle di moda e visibile in alcuni shooting fotografici. Dopo anni di egemonia di ragazze esili e filiformi, nel mondo della moda qualcosa sta mutando. A dimostrare questo cambio di rotta il: Calendario Beautiful Curvy 2017 ideato e progettato da BarbaraChristmann con l’obiettivo di sensibilizzare un ampio pubblico, soprattutto le nuove generazioni.
Giunto alla sua quinta edizione, il calendario, infatti, non rappresenta un semplice susseguirsi di immagini, ma si fa portavoce di un messaggio profondo di donne e uomini, diversi per età, provenienza, stile, e accomunati da storie di esclusione, derisione e scherno, per non essere conformi ai comuni stereotipi di perfezione. Un messaggio reso ancora più immediato attraverso gli scatti fotografici di Stefano Bidini, fotografo di moda che ha sposato il progetto dalla sua prima edizione.
Ventinove donne, tra cui l’ultima vincitrice morale di Miss Italia Paola Torrente, e due uomini sono i volti e i corpi che per 12 mesi esaltano l’importanza di una propria identità, con un gioco di sorrisi e sguardi che con fierezza rivolgono all’obiettivo di Bidini. Persone radiose valorizzate della Make-up Artist Valeria Orlando, con i suoi prodotti naturali, dagli Hair Stylists dei Saloni Framesi e dalle stylist moda Pia Johansson e Cecilia Cristoforetti.
Provenienti dal nord al sud Italia, sino al Brasile, l’Africa e la Colombia, i protagonisti del progetto rappresentano un inno alla vitalità, alla forza interiore, alla bellezza in tutte le sue forme che non si sofferma più solo sul contenitore, bensì anche sul contenuto.
Il Calendario Beautiful Curvy 2017 rappresenta uno strumento per aiutare a comprendere che ciò che davvero conta è l’amore per se stessi, il rispetto della diversità, nella quale risiede l’esclusività di ogni singolo essere umano, sostenendo un concetto di benessere legato alla capacità di stare bene e in salute nel proprio corpo.
Alberelli con nastri, a muro, da appendere. Ma anche con biscotti e bottiglie di vino sono alcune idee originali e green per addobbare la casa durante il periodo natalizio. Quest’anno, per celebrare il Natale, Riva 1920 dà vita a un profumato pinetto di legno massiccio di cedro, adatto per creare la giusta atmosfera durante le feste.
Originario del Mediterraneo orientale, il cedro si è diffuso, anche, nei parchi e nei giardini dell’Europa e dell’Italia, in particolar modo in Piemonte e Lombardia. In queste zone, Riva 1920 recupera tali alberi caduti in seguito a eventi naturali (frane, smottamenti, temporali), o abbattuti per questioni di sicurezza, per ricavare il resistente legno caratterizzato da un profumo fortemente balsamico e aromatico.
Cedro profumato del Libano, Kauri millenario della Nuova Zelanda, Quercia dei pali di navigazione della Laguna veneziana sono alcuni materiali utilizzati da Riva 1920 per la realizzazione di mobili. La loro lavorazione avviene con la più avanzata tecnologia, e solo in seguito, i pezzi vengono levigati a mano, e rifiniti con: collanti vinilici, finiture a olio e cera vegetale, per garantire un arredo il più possibile naturale. Le tecniche di lavorazione sono legate alla tradizione ebanista e applicate dalle sapienti mani dei maestri falegnami altamente qualificati, che garantiscono un elevato livello di flessibilità e personalizzazione.
Diretta dai fratelli Maurizio, Davide e Anna Riva, l’azienda brianzola è un chiaro esempio di come l’artigianalità si combina con il progresso e la tecnologia, dove il design esalta le idee, l’attenzione e la cura dei dettagli, dando vita ad arredi unici e senza tempo, grazie, anche alla collaborazione con oltre 100 designers. Renzo Piano, Michele De Lucchi, Karim Rashid, Mario Botta, Paolo Pininfarina, Matteo Thun, Terry Dwan, Alessandro Mendini, Marc Sadler, Mario Bellini, Claudio Bellini e Giuliano Cappelleti danno forma al legno con progetti originali e sostenibili.
La salvaguardia dell’ambiente e l’amore per la natura sono, infatti, due principi fondamentali per Riva 1920. La qualità delle materie prime utilizzate è alla base del processo produttivo. Ogni elemento è sottoposto a dettagliate verifiche di conformità qualitativa.
L’attenzione di Riva all’ambiente viene dimostrata, anche, attraverso un’iniziativa che contribuisce attivamente alla riforestazione e restituisce alla natura il favore ricevuto per il legno impiegato nella produzione degli arredi. Ciascun cliente che acquista un prodotto del brand riceve in omaggio un piccolo alberello, coltivato a partire dal seme in vivai appositamente creati, da piantare nel giardino di casa, in un bosco oppure in un parco. Per chi non sarà in grado di mettere a dimora la piantina, Riva 1920 ha pensato anche “all’adozione a distanza” con il progetto Natural Living. Per aderire all’iniziativa è sufficiente compilare il modulo scaricabile dal sito internet dell’azienda e presentarlo al momento dell’acquisto presso il punto vendita autorizzato.
La famiglia Riva non è solo sensibile alle problematiche ambientali, ma è anche attiva sul piano sociale con impegni concreti. Per dimostrare solidarietà nei confronti delle famiglie delle vittime dell’11 Settembre 2001, l’azienda ha realizzato cinque tavoli firmati da importanti designers, e la somma ricavata tramite un’asta benefica è stata donata alle famiglie dei pompieri di New York che hanno perso la vita durante le operazioni di soccorso a Ground Zero. I fratelli Riva hanno aiutato, inoltre, i 1500 ragazzi della comunità San Patrignano, avviando un reparto di falegnameria attraverso un’operazione di riuso delle botti barrique impiegate in passato per le attività vitivinicole.
Sostenere il prossimo e la cura dell’ambiente rappresentano uno stile di vita per la salvaguardia delle prossime generazioni. Un vero e concreto impegno che la famiglia Riva non adotta esclusivamente nel periodo natalizio, bensì tutto l’anno.
Il 13 dicembre la Chiesa festeggia santa Lucia. Una ricorrenza che a Trapani è particolarmente sentita e che continua a mantenere vive alcune tradizioni. Si narra che in quella data, nel 1646, nel porto di Palermo approdò una nave carica di grano che pose fine a una grave carestia. Per poterlo consumare immediatamente, il grano non venne macinato, ma bollito.
In ricordo di quell’evento, per Santa Lucia, i siciliani tradizionalmente non consumano cibo a base di farina, ma cuccìa e arancine di riso. Il termine “cuccìa” sembra derivi da “còcciu”: cosa piccola, chicco. L’usanza vuole che questo dolce sia distribuito a familiari, amici e vicini di casa, e le briciole vengano lasciate sui tetti per gli uccellini.
La cuccìa è a base di grano bollito e ricotta di pecora o crema di latte, bianca o al cioccolato. Viene guarnita con zuccata, cannella e pezzetti di cioccolato. Nel trapanese, al frumento bollito viene aggiunto il cosiddetto “vino cotto”: un Mosto di uve caramellizzato, il più antico dolcificante della storia, chiamato anche Sapa o Saba. “Il mosto cotto è un dolcificante naturale che si ottiene dalla lenta cottura del succo d’uva non fermentato e non contiene alcool. Diventa una glassa che si può mettere su pane, frittelle, gelato, frutta secca e fresca. Il mosto cotto si ottiene dalle uve Grillo, Catarratto, Inzolia e da quelle previste dal disciplinare di produzione”, spiega Ercole Alagna, proprietario della cantina Baglio Baiata Alagna.
L’azienda siciliana in questione produce anche il vino della Santa Messa, cioè quello utilizzato per celebrare l’Eucarestia. Vinificato in bianco e rosso, è diffuso nei luoghi dove la pratica religiosa è molto forte. “Con una gradazione alcolica di 16° e di tipo liquoroso, questo vino è rigorosamente ex genimine vitis (Vino Genuino) nel rispetto delle prescrizioni del diritto canonico, ed è prodotto sotto il controllo del vicario foraneo con l’autorizzazione vescovile – precisa Alagna –. L’autorizzazione è sigillata attraverso un particolare procedimento tecnico da parte di esponenti della Santa Sede, che vengono in azienda e chiudono le vasche prima dell’imbottigliamento”. I vini da messa sono pochi, e le cantine nazionali che li producono, dotate dell’autorizzazione delle curie vescovili del territorio, sono diventate fornitrici storiche. Il vino eucaristico deve attenersi ad alcuni parametri dettati dal Codice di Diritto Canonico “vinum debet esse naturale ex genimine vitis et non corruptu” (il vino deve derivare naturalmente dal frutto della vite e non essere corrotto). È necessario dunque che sia realizzato con ‘uva pura’, non contaminata in alcun modo, e la sua genuinità è garantita con dei controlli su campioni da parte di un vicario foraneo, cui segue il sigillo della Curia. Il retro etichetta del vino Santa Messa dell’azienda di Alagna riporta: ‘Preparato, imbottigliato e sigillato secondo i dettami del canone 924§3 del Codice del Diritto Canonico: sotto il controllo del Direttore dell’Ufficio Liturgico della Diocesi di Mazara del Vallo. Il vino per uso sacramentale è frutto della vite (cfr. Lc 22,18), naturale e genuino senza aggiunta di sostanze estranee’.
Il cromatismo del vino non viene menzionato dal diritto canonico. Tuttavia, sugli altari, si è assistito a un cambiamento: il rosso di un tempo, simbolo del sangue di Cristo, è stato gradualmente sostituito dal bianco per motivi pratici: le eventuali macchie sulle tovaglie di lino dell’altare, se rosse, sarebbero troppo evidenti.
“La curia consiglia la vendita di questo vino a chiese, comunità, privati, enoteche. La vendita ai supermercati non è vietata, ma non è auspicata, per evitare abbinamenti inopportuni o ‘volgari’ sugli scaffali”, precisa Ercole Alagna.
Nata nel 1943, con Antonio, padre dell’attuale proprietario, e il solo nome di Alagna, l’azienda è una costruzione agricola antica realizzata sotto forma di balium circolare con all’interno una cappella. “Si erge tra stupende colline, a circa 10 km dal centro di Marsala, dove si trova il territorio più idoneo per questi tipi di vitigni, e si chiama Baglio Baiata, detto anche Baglio Spanò”, precisa Ercole Alagna.
I vigneti sono coltivati su una superficie di 60 ettari di terreno distribuiti nei comuni di Marsala, Salemi, Mazara e Trapani. Crescono qui i vitigni necessari per la creazione di: Zibibbo, Nero d’Avola, Grillo, Catarratto, Inzolia e Damaschino. Tutte uve locali che hanno bisogno del particolare microclima della provincia di Trapani e sono lavorate utilizzando un mix di tecniche tradizionali e moderne, con sistemi di raccolta sia meccanici sia antichi. L’intera produzione minimizza l’impatto ambientale e preserva il patrimonio naturalistico della zona.
La cantina Baglio Baiata Alagna, che si trova a Marsala, è stata creata all’interno di cave di tufo, e possiede, quindi, pozzetti interrati e gallerie sotterranee che facilitano l’invecchiamento del vino e lo proteggono dalle alte temperature tipiche del territorio.
La cantina è specializzata nell’ideazione di vini dolci, di prodotti invecchiati, e di articoli di nicchia, venduti in Italia, Cina, Australia, Brasile e Polonia. Diversi sono i premi ottenuti. “Medaglie d’argento, medaglie di bronzo, e da quest’anno le 5 stelle sono i riconoscimenti che arricchiscono il nostro medagliere – afferma Ercole Alagna –. Abbiamo partecipato a concorsi nazionali e internazionali, siamo stati in Polonia e in Germania”.
Qual è l’ultimo premio vinto? “Le 5 stelle. Il massimo premio enologico internazionale, ricevuto al Vinitaly per il nostro Moscato”.
Tramandate da padre in figlio, la passione e le conoscenze vitivinicole di Baglio Baiata Alagna danno vita a vini divini, pluripremiati e di qualità.